QUELL'OMBRA CHE PARALIZZA E DEPRIME

Dalla collera sorge la tristezza, poiché la mente turbata quanto più disordinatamente si agita tanto più cade nella confusione; e quando ha perduto la dolcezza della tranquillità, si pasce della tristezza che scaturisce dal turbamento.

(Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXX1,89)


VERME DEL CUORE

«La tristezza (lýpe) è un abbattimento dell'anima, che fa seguito ai pensieri di collera»1: con questa motivazione Evagrio, nella lista dei loghismoí, alla collera fa seguire la tristezza; altrove egli stesso inverte però l'ordine di queste due passioni, nella consapevolezza che talvolta la tristezza è l'alveo in cui l'ira è trattenuta e nascosta. Ha scritto Paolo, dando inizio a una lunghissima tradizione spirituale in merito: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (2Cor 7,10).


Vi è dunque una tristezza buona, cioè quell'afflizione che consiste nella sofferenza per la propria lontananza da Dio e che può condurre fino alla compunzione, al sentire il proprio cuore trafitto da Dio stesso che ci invita a ritornare a lui.


Il vizio di cui ci occupiamo è invece quella tristezza che non è secondo Dio, ossia quell'ombra che ci abita, ci paralizza e ci deprime, spegnendo poco per volta in noi la voglia di vivere. Il segno da cui si riconosce tale tristezza è l'incapacità di piangere: solo grazie al dono delle lacrime possiamo infatti sperimentare la tristezza quale giusta sofferenza per i nostri peccati. Come dimenticare che nell'antica tradizione della chiesa vi era una preghiera per ottenere il dono delle lacrime? Non a caso Gesù ha detto: «Beati quelli che piangono» (Mt 5,4), e non: «Beati quelli che sono tristi»...


La tristezza – definita da Evagrio «verme del cuore»2si insinua nel cuore dell'uomo e lentamente corrode tutta la sua vita, come fa la tignola con il vestito (cf. Pr 25,20): se non viene combattuta, essa finisce per abitarci come un inquilino stabile e sempre più difficile da scacciare. Sì, la tristezza è il non-piacere per eccellenza: essa «spoglia da ogni piacere e fa inaridire il cuore»3; la tristezza è alla radice della depressione nervosa, perché conduce al sentimento del non-senso della vita, a uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce, senza speranza: in una parola, invivibile.


È significativo che due salmi presentino come ritornello il versetto: «Perché sei triste, anima mia, perché sei turbata?» (Sal 42Al2; 43,5). Perché la tristezza permane come un'ombra nel nostro profondo, come un brusio che non cessa di tormentarci? Di volta in volta sono le sofferenze ingiustamente patite, le contraddizioni reali alla nostra vita, la constatazione della frustrazione dei nostri desideri, anche quelli più nobili e giusti, a generare in noi la tristezza. Ora, la vita e la realtà certamente ci contraddicono in molti modi, ma guai a chi pensa di poter vivere in un mondo dorato e privo di frustrazioni, guai a chi si nutre di nostalgie immaginarie o di attese impossibili! Se invece ci esercitiamo ad accettare le contraddizioni quotidiane; se, pur soffrendo, sappiamo accogliere ed elaborare le nostre ferite, allora potremo anche aprirci a quella consolazione che viene da Dio e dalla comunione con i fratelli.


TRA PASSATO E FUTURO

Scendendo più in profondità, mi pare che il proprium della tristezza consista nel suo essere una patologia riguardante il nostro rapporto con il tempo.

Da una parte, si idealizza il passato come tempo indiscutibilmente migliore di quello attuale e lo si evoca con accorati accenti di nostalgia, non privi di una certa ottusità. Istruttive in proposito sono le parole di mormorazione rivolte dai figli di Israele contro Mosè e Aronne, durante l'esodo verso la terra promessa: «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16,3).

D'altra parte, si sogna di realizzare in un futuro mitico ciò che, per l'appunto, è destinato a cominciare sempre domani, oppure si teme l'avvenire per le incognite che può riservare.

Insomma, in un modo o nell'altro ci si rifugia in un mondo immaginario per non aderire alla realtà: così facendo, però, non si coglie il presente come l'oggi di Dio, come l'ora irripetibile che ci è data da vivere.


Anche Gesù ha conosciuto la tristezza di fronte alla prospettiva della morte, è stato «preso da paura e angoscia» (cf. Mc 14,33 e par.) quando ha dovuto cercare un senso alla sua fine ignominiosa. Ed egli ha vinto quella tristezza mediante un radicale abbandono alla volontà del Padre (cf. Mc 14,36 e par.), riuscendo a percepire nella passione ormai prossima una logica di amore per Dio e per gli uomini. Davvero, solo quando si intravede l'amore, quando si sa che l'amore può essere la ragione del vivere e del morire, allora cessa la tristezza e si fa strada la beatitudine, la gioia sempre rinnovata che è dono dello Spirito santo (cf. Gal 5,22).

Detto quest’ultima cosa potremmo davvero anche finire qui: perché questo è il segreto della vita … di una vita felice. Su questo punto fermati a riflettere e a pregare!!


L'ABITO DELLA GIOIA

Si comprende dunque perché il Nuovo Testamento unisca strettamente la gioia, antidoto principale alla tristezza, alla capacità di vivere in modo adeguato il rapporto con il tempo, di vivere il momento presente: la gioia è una virtù escatologica, che unifica il tempo umano nell'oggi di Dio, anticipando nel presente la dimensione finale, la gioia della meta che ci attende nel Regno (cf 1Pt 1,6-9; 4,13).


Occorre inoltre ricordare che per i cristiani la gioia non è il frutto di una disposizione interiore di tipo psichico o emotivo, ma è coniugata all'imperativo, è un comando apostolico: «Rallegratevi, siate nella gioia!» Essa non è dunque un vago e spontaneo sentimento, ma uno stato da ricercare.

È gioia «nel Signore» (Fil 4,4.10), in quanto gioia del Signore innanzitutto, del Dio che si rallegra e comunica la sua gioia ai suoi amati; e nel cristiano tale gioia nasce dall'essere «in Cristo», dal sapere che Cristo vive in lui (cf. Gal 2,20).

È «gioia nello Spirito santo» (Rm 14,17), e pertanto a essa ci si esercita invocando il dono dello Spirito e disponendosi ad accoglierlo mediante la fede, la speranza e la carità. Lo Spirito santo è «il Consolatore» (cf. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), è colui che ci testimonia che Dio stesso «asciugherà le lacrime dai nostri occhi» (cf Ap 7,17; 21,4), che ci permette di discernere l'invisibile e, dunque, di restare saldi, di svestire il saio della tristezza per indossare l'abito della gioia (cf Sal 30,12).


Sì, occorre obbedire risolutamente al comando alla gioia ed esercitarsi a essa vivendo in pienezza il momento presente, così da sperimentare che né il passato né il futuro possono determinarci, ma solo l'oggi di Dio.


INVIDIA PER LA «ROBA» DEGLI ALTRI

Una forma particolare di tristezza è l'invidia4, che Evagrio non inserisce nel catalogo dei vizi. A essa invece conferisce un ruolo rilevante Gregorio Magno, che la colloca al secondo posto tra i «vizi capitali»5. Egli così la descrive:


Quando l'invidia vince e corrompe il cuore, lo stesso aspetto esteriore indica quale grave pazzia scuota l'animo. Il viso diventa pallido, gli occhi guardano basso, la mente si riscalda, e le membra si raffreddano, i pensieri diventano rabbiosi, i denti stridono; e mentre nel segreto del cuore si nasconde l'odio crescente, la ferita racchiusa tortura con cieco dolore la coscienza. Non si trova più gioia nelle cose proprie, perché la mente si logora nella sua pena, nata dalla felicità altrui6.


Sì, c'è anche una tristezza che nasce dalla consapevolezza, dall osservazione del bene e della felicità altrui: terribile sentimento, così presente nel nostro quotidiano... La matrice di questo peccato è il desiderio di avere noi la «roba» degli altri, anche se a volte si vorrebbe semplicemente che l'altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche, quei determinati doni. Per questo è un sentimento che si cerca di nascondere, un sentimento inconfessabile, di cui non ci si vanta ma ci si vergogna.


Più in profondità, l'invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri, è ciò che riflette la mia incapacità personale di riconoscere con gratitudine i doni che Dio ha concesso rispettivamente a me e agli altri. Ci sono sempre qualità che gli altri hanno e io no; fissandomi su queste, invece di rallegrarmi della vita quale essa è, osservo e invidio i doni distribuiti da Dio agli altri.


L'invidia è un sentimento che purtroppo nasce già nell'infanzia, soprattutto nei rapporti familiari, e in particolare là dove ci sono fratelli o sorelle. La Bibbia ce ne dà numerosi esempi: Caino invidia Abele (cf. Gen 4,3-5), i figli di Giacobbe invidiano il fratello Giuseppe (cf. Gen 37,5-8)... L'invidioso è colui che si sente escluso da un bene che l'altro che gli è accanto possiede: il bene dell'altro è sofferto come male proprio!

Chi è preso da questa patologia guarda con occhio cattivo (invidia da in-videre) la felicità, il bene, la virtù dell'altro, fino a sfigurarne l'immagine e la realtà, fino a concentrare tutti i propri desideri su ciò che gli altri possiedono. In definitiva, che cos'è l'invidia se non un contraddire al comandamento: «Non desiderare la roba d'altri» (cf. Es 20,17; Dt 5,21)?


Oggi i sociologi dicono che l'invidia è un male sociale assai diffuso, soprattutto nei confronti di chi è più ricco, di chi guadagna di più. Ma l'invidioso deve sapere che, non appena gli altri si accorgono di questo suo sentimento, lo abbandonano, lo lasciano solo, perché egli è ai loro occhi insopportabile: sicché l'invidioso è condannato all'isolamento. Basilio osserva che l'invidia distrugge e consuma quelli di cui si impadronisce, come la ruggine rode il ferro, come la lancia che incontra una pietra dura e si spacca7. Sono espressioni eloquenti: nell'invidia ci si rode, ci si consuma, ci si spacca...



LA GELOSIA

L'invidia assume a volte una connotazione specifica che siamo soliti definire come gelosia. Francesco d'Assisi ha scritto ai frati radunati in capitolo:


Chiunque invidierà il suo fratello per il bene che il Signore dice e fa in lui, commette peccato di bestemmia, perché è invidioso dello stesso Altissimo che dice e fa ogni bene8.


Questa invidia gelosa è un segno pericoloso e grave, perché finisce per recare offesa a Dio, prima che agli altri! Che male terribile, soprattutto nella vita comune dei monaci... Essa nasce dal vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo, dal verificare ciò che gli altri sono e fanno e, di conseguenza, l'approvazione e il riconoscimento che essi ricevono: ma è proprio qui che il cristiano dovrebbe esercitarsi a gioire con chi gioisce, a piangere con chi piange, a condividere le gioie e le tristezze dei fratelli e delle sorelle (cf. Rm 12,15). Perché le gioie e le capacità degli altri sono doni per tutti, per l'utilità comune!


Eppure invidia e gelosia sono i mali più presenti nella vita comune, e provocano liti, contestazioni, dissidi, mormorazioni. Occorre dirlo con estremo realismo: questi sentimenti trasformano anche somaticamente chi ne è preda e si manifestano con il pallore, con le labbra tese e piatte, con lo sguardo glaciale... Noi monaci conosciamo bene questa patologia e le sue manifestazioni! Ma dovremmo anche sapere che «la carità non invidia» (1Cor 13,4) e che se c'è invidia e gelosia, allora non c'è carità.

Esiste un antidoto all'invidia e alla gelosia? Sì, la gratitudine, ossia il saper rendere grazie, il saper stupirsi del bene, da chiunque venga compiuto, il saper vedere con occhio buono tutto ciò che fiorisce intorno a noi... Solo chi sa riconoscere ed essere grato per il bene fatto dagli altri è capace di «fare il bene», di purificare il suo operare, di cantare il suo ringraziamento a Dio per tutto ciò che opera nella storia e nella vita di ogni uomo.





LA TRISTEZZA SECONDO I PADRI DELLA CHIESA


UNA TRISTEZZA UTILE E UNA TRISTEZZA CATTIVA

Un anziano diceva riguardo a Lazzaro, il mendicante: «Non troviamo scritto che egli abbia mai mormorato contro Dio, come se non avesse avuto misericordia di lui, ma sopportava la fatica rendendo grazie, e non giudicava il ricco. Per questo Dio lo prese con sé (cf. Lc 16,20-22)».

Detti dei padri del deserto, Collezione anonima 376



I desideri frustrati fanno spuntare tristezze, ma le preghiere e le azioni di grazie le fanno svanire. La tristezza si agita in mezzo a quelli che sono adirati: chi per primo ritorna in sé e si riprende dalla passione, se tende la mano all'altro per chiedere scusa, allontana l'amara tristezza. La tristezza è una malattia dell'anima e della carne: fa prigioniera l'una e consuma l'altra. La tristezza è generata da motivi opposti; dalla tristezza poi proviene l'ira e da queste sono generate follia e offese. Se vuoi calpestare tristezza e ira, abbraccia la longanimità della carità e rivestiti della gioia dell'innocenza. La tua gioia non sia causa di tristezza per un altro. Chi infatti gode dell'ingiustizia piangerà al tempo della benevolenza [divina] e colui che sopporta tristezze soffrendo ingiustamente, esulterà splendidamente, perché il futuro sarà l'opposto del presente.

Evagrio Pontico, A Eulogio. Sulla confessione dei pensieri 7


Chi fugge tutti i piaceri del mondo è una cittadella inaccessibile al demone della tristezza. La tristezza infatti è la frustrazione di un piacere, presente o atteso. È impossibile respingere questo nemico, se noi abbiamo un attaccamento passionale a qualche bene terreno. Egli infatti tende la rete e produce la tristezza laddove vede manifestarsi maggiormente la nostra inclinazione.

Evagrio Pontico, Trattato pratico 19


LA PREGHIERA CONTRO LA TRISTEZZA


A volte la tristezza è conseguenza dell'ira che l'ha preceduta, oppure è generata da un desiderio frustrato o da qualche guadagno mancato – quando cioè uno si vede svanire la speranza che nutriva per questa o quella cosa. Altre volte, poi, anche senza alcun motivo apparente che ci spinga a cadere in questo precipizio, ma solo perché pungolati dal nostro astuto Nemico, ci sentiamo improvvisamente oppressi da una così grande afflizione, che non riusciamo ad accogliere con la consueta affabilità neppure le persone che ci sono care e a cui siamo più legati; e qualunque cosa ci dicano, per quanto adeguata alla circostanza, ci sembra inopportuna e superflua, e rispondiamo loro in modo del tutto scortese, perché il fiele dell'amarezza invade ormai tutte le profondità del nostro cuore.

Da quanto si è detto risulta chiaramente che non è sempre colpa degli altri se in noi si accendono gli stimoli passionali, ma è piuttosto colpa nostra, perché siamo noi stessi a custodire nel segreto del nostro intimo le cause d'inciampo e i semi dei vizi, che poi, non appena la pioggia delle tentazioni bagna la nostra mente, subito germogliano e danno frutto.

Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX,4-5



Ecco come potremo scacciare dai nostri cuori questa passione così pericolosa [della tristezza]: tenendo la nostra mente incessantemente occupata nella meditazione spirituale grazie alla speranza dei beni futuri e alla contemplazione della beatitudine promessa. In questo modo infatti riusciremo a superare ogni genere di tristezza, sia quella che deriva dall'ira che l'ha preceduta, sia quella che è frutto della perdita di qualche guadagno o di un danno che ci è stato arrecato, sia quella che è prodotta da un'offesa che abbiamo subito, sia quella che è conseguenza di un inspiegabile turbamento della mente, sia quella che ci spinge a una disperazione mortale. Così, rimanendo sempre lieti e imperturbabili nella contemplazione delle realtà future ed eterne, non ci lasceremo né abbattere dagli eventi dolorosi della vita presente, né esaltare da quelli felici, guardando gli uni e gli altri come realtà effimere e passeggere.

Cassiano, Istituzioni cenobitiche IX,13




IL MALE DEL DIAVOLO


L'invidia è un male proprio del diavolo, l'invidia non può essere espressa in parole e non ammette cura. Chi ha mal di testa dice al medico che gli fa male la testa, ma chi è malato d'invidia che cosa può dire? Mi fanno male i beni del fratello? La verità è proprio questa, ma ciascuno si vergogna di dirla a parole. Per che cosa gemi? Per un male proprio o per un bene altrui?

Basilio di Cesarea, Omelia pronunciata a Lacizi 8



L'invidia è la passione che è all'origine del male, il padre della morte, la prima via d'ingresso per il peccato, la radice della malvagità, l'origine della tristezza, la madre di ogni disgrazia, la causa di disobbedienza, l'inizio della vergogna. L'invidia ci ha esiliato dal paradiso tramutandosi in serpente ai danni di Eva. L'invidia ci ha separato dall'albero della vita e, dopo averci spogliati delle sacre vesti, ci ha fatto ricorrere con vergogna alle foglie di fico. L'invidia, armò Caino contro la sua stessa natura e introdusse l'abitudine di vendicare sette volte la morte di una persona. L'invidia ridusse Giuseppe in schiavitù. L'invidia è pungolo mortifero, arma nascosta, malattia della natura, veleno della bile, deperimento volontario, ferita amara, chiodo dell'anima, fuoco interiore, fiamma che arde nelle viscere.

Per essa è una disgrazia non il proprio male, ma il bene altrui; è un successo non il proprio bene, ma il male degli altri. L'invidia si rattrista dei successi degli uomini e coglie al volo le loro disgrazie. Dicono che gli avvoltoi che divorano cadaveri siano uccisi dal profumo: la loro natura infatti è abituata a ciò che è puzzolente e putrefatto. Allo stesso modo, chi è posseduto da questa malattia si sente ucciso dal benessere dei suoi vicini come da un profumo; appena però si accorge che sono nella sofferenza per una qualche sventura, si precipita a volo sopra di essa e vi introduce il suo becco ricurvo per scoprire tutto ciò che si cela in quella disgrazia.

Gregorio di Nissa, Vita di Mosè 11,256-258




1 Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 11.

2 Ibid.

3 Cf. Id., Sui pensieri 12.


4 Cf. Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 2,14: «Quattro sono le specie di afflizione: la tristezza, l'oppressione, l'invidia, la compassione. La tristezza è un'afflizione che causa afonia, l'oppressione è un'afflizione che accascia, l'invidia è un'afflizione a causa del bene degli altri, la compassione è un'afflizione a causa del male degli altri».

5 Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXXI, 88.


6 Ibid. V,85.

7 Cf. Basilio di Cesarea, Omelia undicesima (Homilia de invidia) 1.4 (PG 31,373.380).

8 Francesco d'Assisi, Ammonizioni 8.


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