Agostino era nato il 13 novembre del 354 a Tagaste, un paese agricolo sull’altipiano della Numidia, nell’Africa settentrionale, in una famiglia di piccoli proprietari che vivevano sulla rendita dei loro terreni. Il padre Patrizio, che era anche membro del consiglio comunale, era pagano; la madre, Monica, che aveva avuto tre figli, fra cui il primogenito Agostino, era invece cristiana; e fu lei a dargli la prima educazione religiosa ma senza battezzarlo, come d’altronde succedeva spesso a quei tempi, quando si rinviava il sacramento all’età matura.
Dopo i primi studi a Tagaste e poi nella vicina Madaura si recò nel 371 a Cartagine grazie all’aiuto di un facoltoso signore del suo paese, Romaniano. Agostino, che aveva sedici anni, era un adolescente molto vivace ed esuberante: mentre frequentava la scuola di un retore, cominciò a convivere con una giovane cartaginese che nel 372 gli diede un figlio, Adeodato. Quella relazione sarebbe durata quattordici anni. La nascita inaspettata del figlio lo costrinse a disciplinarsi a una vita meno dispersiva e inconcludente, soprattutto concentrata negli studi per i quali era stato inviato a Cartagine. Fu in quegli anni che maturò la sua prima vocazione di filosofo grazie alla lettura di un dialogo di Cicerone, l’Ortensio, dove lo scrittore latino sottolineava come soltanto la filosofia aiutasse la volontà ad allontanarsi dal male e a esercitare la virtù.
A Cartagine, dopo aver tentato invano di capire la Sacra Scrittura, s’imbatté nel manicheismo di cui divenne presto un apostolo entusiasta. Cominciava così la sua avventurosa ricerca della verità attraverso eresie e filosofie dalle quali, dopo un’iniziale adesione, prendeva poi le distanze grazie al suo spirito critico.
Ultimati gli studi, tornò nel 734 a Tagaste dove Romaniano non soltanto gli aprì una scuola di grammatica e retorica ma lo ospitò in casa sua con tutta la famiglia dopo il rifiuto della madre che aveva preferito separarsi da Agostino per non condividerne le scelte. Soltanto più tardi lo riammise in casa perché aveva avuto un sogno premonitore secondo il quale il figlio sarebbe tornato alla fede cristiana.
A Tagaste Agostino insegnò per due anni arte oratoria; ma il paese era troppo modesto per le sue ambizioni, sicché nel 376 decise di ritornare a Cartagine dove l’amico Romaniano, che egli aveva convertito al manicheismo, lo aiutò ad aprire una scuola procurandogli persino i primi allievi. Fu a Cartagine che il giovane retore cominciò a nutrire i primi dubbi sul manicheismo, che si aggravarono quando ebbe modo di frequentare Fausto di Milevi il quale nel 383 si era trasferito in Africa. Fausto, che era uno degli esponenti più autorevoli della setta, non soltanto non riuscì a scioglierli, ma gliene suscitò altri.
Aveva vissuto ormai sette anni a Cartagine quando, stanco della poca disciplina dei suoi alunni e forse desideroso di nuove esperienze, decise di trasferirsi a Roma. Sordo alle lacrime della madre che voleva trattenerlo in Africa, la lasciò con un pretesto e salpò segretamente per l’Italia insieme con la moglie e il figlio.
Ma a Roma, dove grazie all’ospitalità dei manichei aveva ripreso l’insegnamento, non riuscì a trovarsi a suo agio. Una malattia gravissima lo condusse quasi alla morte, l’ipocrisia dei manichei romani lo allontanò spiritualmente dalla setta anche se esteriormente manteneva buoni rapporti per motivi di convenienza. Ormai cercava altrove una soluzione ai suoi dubbi: una strada lunga, la sua, che avrebbe attraversato i territori dello scettiscimo e del materialismo. Anche l’attività di insegnante cominciò a pesargli, anzi a disgustarlo perché gli studenti romani avevano l’abitudine di trasferirsi in massa presso un nuovo insegnante quando veniva il momento di pagare.
Nel 384 decideva di lasciare Roma per Milano che era diventata la sede stabile della corte imperiale: una città vivace culturalmente ed economicamente, dove ormai aveva acquisito una grande autorità il vescovo Ambrogio. Grazie all’appoggio del prefetto dell’Urbe, Quinto Aurelio Simmaco, al quale era stato raccomandato dai manichei, era riuscito ad ottenere la cattedra di retorica che in quel momento era vacante.
Milano fu la tappa decisiva della sua ricerca. Non poco contribuì alla sua conversione sant’Ambrogio, che Agostino, dopo una visita di cortesia, non ebbe modo di frequentare assiduamente, ma poteva ascoltare regolarmente in cattedrale dove predicava. Frequentava invece un anziano sacerdote, san Simpliciano, che aveva preparato all’episcopato Ambrogio. Simpliciano, la cui festa liturgica cade il 16 agosto, con finissimo intuito pedagogico lo incoraggiò a leggere i neoplatonici ai quali Agostino si era già avvicinato nella sua ricerca, spiegandogli che i loro scritti suggerivano «in tutti i modi l’idea di Dio e del suo Verbo». Sapeva che per un intellettuale come Agostino quella sarebbe stata la via maestra per liberarsi delle scorie che ne impedivano la conversione.
A questo lento processo contribuì anche la madre che lo aveva raggiunto a Milano nella primavera del 385. Si deve a lei l’incontro tra il figlio e Ambrogio che segnò un altro passo verso il battesimo. Ma soprattutto la sua testimonianza nel vivere la fede aiutò il figlio a capire il nucleo del cristianesimo, la comunione con il Cristo. E fu lei a convincerlo a lasciare la moglie, che giuridicamente era soltanto una concubina, rimandandola in Africa senza il figlio Adeodato che egli tenne presso di sé. Come giudicare quella decisione per tanti aspetti crudele?
Celebre è l atto finale, la scena della conversione. Agostino si era appartato nel giardino della sua casa milanese. Era disorientato, angosciato, incerto. Finché da una casa vicina udì una voce: «Tolle, lege; tolle, lege», prendi e leggi. Poco prima, allontanandosi da un amico, aveva lasciato su un tavolo le Lettere di san Paolo. Ritornò sui suoi passi e aprì a caso il libro leggendo: «Comportiamoci onestamente…: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13, 13 ss.).
Il professore di retorica continuò ancora per qualche settimana il suo insegnamento; poi si ritirò insieme con la madre, il figlio e alcuni amici a una trentina di chilometri a nord di Milano, a Cassiciaco. Infine nella notte di Pasqua del 387 ricevette il battesimo dalle mani del vescovo Ambrogio.
Ormai non aveva più motivi per restare in Italia. Decise di ritornare in patria dove voleva creare una comunità di amici in una vita monastica. Verso la fine dell’estate lasciò Milano scendendo fino ad Ostia da dove si sarebbe dovuto imbarcare per l’Africa. Mentre aspettavano la nave, Monica improvvisamente si ammalò di una febbre maligna, probabilmente malaria, e dopo nove giorni, all’età di cinquantasei anni, morì: era il 27 agosto del 387, che divenne la sua festa liturgica. Il suo corpo, sepolto nella chiesa di Sant’Aurea, fu trasferito nel 1430 a Roma, nella chiesa di San Trifone, poi dedicata a sant’Agostino, dove si venera con grande devozione: Monica è considerata infatti il modello e la patrona delle madri cristiane.
Agostino, sepolta la madre, decise di restare a Roma ancora per un anno per visitare i monasteri e studiare le tradizioni di quella Chiesa. Tornato in patria nel 388, vendette i pochi beni che aveva, ne distribuì il ricavato ai poveri e insieme con alcuni amici fondò una piccola comunità dove tutto era proprietà comune.
Tre anni dopo, mentre si trovava per caso nella basilica di Ippona, il vescovo Valerio stava proponendo alla comunità di consacrare un sacerdote che potesse assisterlo. La presenza di Agostino non era passata inosservata: ad un tratto si levò un grido: «Agostino prete!». Non era certo questa la strada che avrebbe voluto imboccare. Cercò in tutti i modi di rifiutare la designazione. Ma fu tutto inutile: alla fine dovette accettare. Chiese tuttavia al vescovo di poter costruire un monastero dove, accanto ad alcuni anziani ecclesiastici a riposo, vennero a vivere inizialmente molti laici che mantenevano la comunità col lavoro manuale. Ma ben presto quel monastero — e certamente altri edificati successivamente sullo stesso tipo — divenne un seminario di preti e vescovi della Chiesa africana. «Questo fatto ebbe ripercussioni notevolissime in seno alla cristianità,» ha osservato Giuseppe Turbessi in Regole monastiche antiche (Roma 1990) «la quale così si avviò verso una salutare riforma dei costumi che servì mirabilmente a ristabilire l’ordine, la pace e l’unione degli spiriti… L’iniziativa agostiniana inoltre gettava le basi del rinnovamento dei costumi del clero. “Il sacerdozio è cosa tanto grande che appena un buon monaco” così pensava sant’Agostino “può darci un buon chierico”.» Scrisse anche una brevissima Regola, Regula ad servos Dei, che venne poi assunta dalla Comunità dei canonici regolari, o Agostiniani, a metà del IX secolo. Nella Regola si colgono molte affinità con il monachesimo di san a Basilio Magno nell’apertura pastorale verso i fratelli e nel rifiuto di eccessive mortificazioni.
Cinque anni dopo il vescovo Valerio, temendo che Agostino venisse eletto alla cattedra episcopale di qualche altra Chiesa, convinse il primate della Numidia, Megalio di Calama, a consacrarlo vescovo coadiutore di Ippona. Dovette lasciare il suo monastero, ma nell’episcopio continuò a condurre vita in comune con i sacerdoti. Infine nel 397, morto Valerio, fu nominato suo successore.
Ogni giorno Agostino doveva presiedere le funzioni liturgiche, amministrare i sacramenti e di domenica predicare. Inoltre doveva preparare al battesimo i catecumeni, occuparsi dei poveri e degli orfani, dedicarsi all’attività caritativa. Nello stesso tempo scriveva le sue opere, che dalle Confessioni sino alla Città di Dio sono la testimonianza di un pensiero teologico che si confrontava con le eresie e i problemi del tempo: una riflessione che avrebbe influenzato tutto il dibattito teologico occidentale, tant’è vero che la sua dottrina della Grazia ha suscitato fino all’età moderna dispute e interpretazioni diverse.
Dopo aver discusso con manichei, donatisti e pelagiani Agostino dedicò una delle sue ultime opere, La città di Dio, a confutare le accuse che i pagani, dopo il sacco di Roma, rivolgevano al cristianesimo che ritenevano una dottrina irrazionale e socialmente inefficace, impotente ad opporsi alla rovina di una città e al crollo di un mondo: un’opera imponente che, se rivela delle crepe nella polemica antipagana, è invece una compiuta visione metafisica ed escatologica della storia umana.
La città di Dio non fu la sua ultima opera. Lavorò ad altri scritti, fra cui Le ritrattazioni in cui cercò di sottoporre a una rilettura critica l’intera sua riflessione per chiarire, completare e correggere il suo pensiero in modo da offrirne l’autentica interpretazione. Ma non riuscì a completarla: nel 429 si ammalò gravemente mentre la sua città era assediata dai Vandali. Morì all’età di settantasei anni il 28 agosto del 430, che divenne poi la sua festa liturgica. Il suo corpo, sottratto ai Vandali durante l’evacuazione e l’incendio di Ippona, venne trasportato a Cagliari dal vescovo Fulgenzio di Ruspe al tempo del suo primo esilio (508-517 circa) o del secondo (518-519) insieme con quelli di altri vescovi africani. Infine, tra il 720 e il 725, il pio re longobardo Liutprando riuscì a riscattare dai Saraceni la salma di Agostino e a trasferirla a Pavia, non lontana dai luoghi della sua conversione.
Secondo la tradizione le reliquie di sant’Agostino Aurelio sono custodite a Pavia, nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, sotto la mensa dell’altar maggiore, in una cassetta argentea dell’VIII secolo. Sopra l’altare l’arca di Sant’Agostino, opera di maestri lombardi del XIV secolo, raffigura gli episodi principali della sua vita che egli stesso ci ha raccontato in uno dei testi più celebri della letteratura occidentale, Le confessioni, che insieme con l’epistolario e la Vita sancti Augustini, scritta da Possidio, suo confratello nel monastero di Ippona nel 391, sono state le fonti principali delle innumerevoli biografie scritte fino ad oggi.
Nonostante che Agostino sia vissuto soltanto cinque anni in Italia è diventato un santo molto venerato nel nostro Paese, tant’è vero che molte sono le chiese che gli son dedicate, così come le opere d’arte dove egli appare sovente con gli attributi episcopali della mitra e del pastorale, ma talvolta anche come monaco agostiniano con il saio nero e la cintura di cuoio. Come Dottore della Chiesa è invece seduto a uno scrittoio dove campeggia un libro aperto: così appare nella sua più antica immagine, un affresco del Sancta Sanctorum della basilica del Laterano, che risale al VI secolo. Non rara è la sua immagine di santo cardioforo (vedi immagine nel soffitto della chiesa di Sant’Agostino a Rimini) , che porta cioè in mano un cuore fiammeggiante o trafitto da frecce in ricordo del passo delle Confessioni dove egli, rivolgendosi a Gesù, dichiara: «Ci avevi trafitto il nostro cuore con il tuo amore». Ma il suo cuore non fiammeggia né è trafitto da frecce nel particolare di Madonna e santi del Pinturicchio, custodito nella Pinacoteca Vannucci a Perugia.
Dal XV secolo compare un altro motivo iconografico che si ispira alla leggenda secondo la quale un angelo sarebbe apparso a sant’Agostino, che stava meditando sulla Santissima Trinità, dimostrandogli come il tentativo di comprenderne il mistero fosse vano quanto quello di raccogliere l’acqua del mare in una piccola fossa scavata sulla spiaggia: nel dipinto del Botticelli, alla Galleria degli Uffizi a Firenze, l’angelo ha le sembianze di un bimbo in costume quattrocentesco.