Sermone tratto dal volume: p. Arrighini A. In splendoribus sanctorum, Torino 1958 pag. 150-155
San Tommaso (da) Villanova 1488-1555
Sommario dell’esposizione
ESORDIO. – Questo antico e santo frate agostiniano predicò il Vangelo:
SVOLGIMENTO. – I. In modo evangelico ossia: 1) con semplicità ed unzione; 2) con ordinato metodo scolastico; 3) con sana e soda dottrina. II. In modo esemplare ossia: 1) coll’unirvi l’esempio di tutte le cristiane virtù e in particolare della carità verso Dio ed il prossimo; 2) con una vita penitente e mortificata condotta per molti anni tra gli Eremitani di sant’Agostino; 3) con straordinario zelo pastorale durante il suo episcopato a Valenza dove anche santamente morì.
CONCLUSIONE. – Procuriamo anche noi di ascoltare la predica in modo evangelico ed esemplare col ben capire, col ben ritenere e col ben praticare.
Praedicate Evangelium (MARC., XVI, 15).
Se molti sono ai nostri giorni che predicano il Vangelo, pochi però in modo evangelico e da ciò lo scarso frutto che ne deriva.
Al contrario anticamente, se pochi erano coloro che predicavano il Vangelo, ossia soltanto i vescovi e quelli da essi delegati, quasi tutti però in modo evangelico, cioè con semplicità, naturalezza, unzione e con quel buon metodo scolastico che procedendo per divisioni, argomentazioni, conclusioni faceva facilmente capire, ritenere, praticare.
Seguace di un tal metodo, come si può giudicare anche dalle numerose sue prediche che ci pervennero, fu indubbiamente anche l’antico frate agostiniano Tommaso da Villanova e a ciò si devono i grandi successi che riportò come missionario e come Pastore di anime.
Con questo non s’intende certo escludere che vi contribuirono pur molto la sua santità, la sua vita penitente, il suo zelo apostolico, di cui anzi specialmente tratteremo; come pure l’epoca e l’ambiente in cui visse dei quali cominceremo subito a parlare.
1. – San Tommaso da Villanova visse verso la fine del medioevo e predicò in quella Spagna dove più che altrove il medioevo si protrasse.
Ora non bisogna dimenticare che in quell’epoca in cui non vi erano altri mezzi di comunicazione, l’unico della parola doveva avere un valore grandissimo, specialmente poi riguardo alla religione, sicché si poteva ben dire che veniva tutta dall’udito: Fide ex auditu.
Adesso che noi disponiamo della stampa, del telefono, della radio e di tanti altri rapidi mezzi di comunicazione, non possiamo farci neppure un’idea dell’importanza che aveva prima la parola viva.
Le strade romane ed imperiali formavano i grandi itinerari della parola; da questa grande rete si diramava quella quasi capillare delle varie parrocchie.
Sulla rete maggiore correvano due specie di notizie: le prime erano portate dai legati pontifici e dai messi imperiali, ed avevano l’importanza di quelli che oggi si chiamerebbero comunicazioni politiche. Su quelle grandi strade, infatti, a ogni giornata di cammino, sorgeva un’abbazia che aveva non il dovere, ma il diritto di ospitare quei messi o legati. A tale diritto le abbazie ci tenevano molto poichè così vi giungevano quasi ogni giorno notizie fresche e sicure da Roma o dalle altre capitali. Mentre oggi le nostre grandi agenzie giornalistiche sono misteriose potenze, allora nel così detto «tenebroso evo» si sapeva chiaramente da quale autorità provenivano le notizie.
La seconda corrente che fluiva di continuo sulla rete stradale era poi quella dei predicatori; se il passaggio dei primi costituiva l’avvenimento politico, quello di quest’altri l’avvenimento religioso, spesso ben più importante per il popolo. A renderlo tale, il predicatore evangelico che allora andava a piedi di villaggio in villaggio, lasciava che la notizia del suo arrivo lo precedesse e quando finalmente arrivava in un luogo, la fama era già andata d’attorno e aveva radunato gente per un raggio di parecchie leghe. Di solito nelle città e paesi dove arrivava il predicatore, i padroni davano libertà ai sottoposti, i bottegai mettevano le bande, i contadini arrivavano da lontano guidati dai loro parroci e tutti se ne tornavano poi non già pasciuti di vento o di chiacchiere, ma di sana dottrina, di verità sacrosante che per un pezzo non scordavano.
E questo dipendeva specialmente dal modo evangelico che allora si predicava. Per comprenderlo, come ben osserva un autore, bisogna, prima di tutto, dimenticare quella che fu l’eloquenza degli antichi classici e le chiacchiere dei moderni.
Certo l’ars concionandi degli antichi, i predicatori medioevali la conoscevano meglio di noi, ma essi volevano dare alla predicazione cristiana un altro spirito e quindi un’altra forma che potremo chiamare scolastica.
Essi cominciavano a scegliere ed a premettere alla predica un thema, dato generalmente da una massima della Scrittura, e si limitavano a sviscerare bene quello senza perdersi per strada in mille questioni accessorie o inutili quisquiglie. Né il thema doveva essere un pretesto oratorio o retorico, ma il nucleo per modo che tutte le parti del discorso dovevano procedere da esso e a lui far capo. Da ciò derivava logicamente la partizione del tema e la divisione scolastica della predica.
Al nostro gusto malsano secondo cui l’oratoria non ha adesso altro punto fisso se non la bocca di chi parla, e si svolge come un pennacchio di fumo agitato dal vento delle passioni o delle emozioni del momento, quella rigidezza e compostezza scolastica potrà sembrare fredda, eppure era e sarebbe tuttora la più adatta all’insegnamento spirituale o evangelico che si propone. Quello che più interessava al predicatore non era l’effetto e neppure l’interesse e tanto meno il dilettare, ma l’istruire, il far capire e anche ben ritenere. Ora a ciò nulla di più adatto del metodo scolastico che procedeva a modo di sillogismo in cui si annunciavano e svolgevano le premesse per poi giungere spontaneamente alle conseguenze. Questo era anche il miglior modo per aiutare la memoria o per memoriter retinere di cui giustamente tanto si preoccupavano allora i predicatori, ben sapendo per esperienza che poco giova «senza lo ritener l’aver inteso». Anche quel nostro tanto popolare predicatore che fu san Bernardino da Siena soleva dire ai suoi uditori: «Vuoi tu ben intendere? – Sì -. Vuoi tu imparare? – Sì -. Ebbene, in mente habe, fa’ che tu tenga a mente».
Le concioni accademiche o politiche come pure le forensi, non sono fatte per essere ricordate, ma solo per impressionare momentaneamente e ottenuto che abbiano questo effimero scopo, tanto prima son dimenticate e meglio è; ma la predica che ha lo scopo d’istruire, ch’è ministra di dottrina e direttrice di coscienza, deve imprimersi quanto meglio può e il più possibile nella memoria degli uditori. Per questo basta notare i diversi modi di concludere: l’oratore classico e moderno si abbandona alla perorazione, il vero predicatore riassume invece ordinatamente la materia svolta nel discorso traendone le pratiche conseguenze morali.
Il su citato Bernardino come il nostro Tommaso da Villanova, seguivano una maniera molto semplice di ricapitolare: dopo aver ben sviluppate le diverse parti in cui avevano diviso il loro tema, invece di abbandonarsi ad enfatiche perorazioni, concludevano: «E adesso ragumando in somma il mio dire…» oppure « dopo aver visto e considerato…» o ancora: «riassumendo quanto si è detto…» e raccoglievano infatti in poche frasi tutti i capi della predica per modo che gli uditori andavano via non con la testa scaldata, ma piuttosto illuminata e con un sommario ben preciso nella mente.
Ma oltre al metodo adoperato dal nostro Tommaso da Villanova bisogna ancora ricordare l’ambiente in cui predicò ed ottenne i suoi maggiori successi. Era la Spagna che fra tutte le nazioni fu sempre la più medioevale e fanatica. Basti ricordare l’entusiasmo che qualche tempo prima vi aveva suscitato anche l’altro suo predicatore san Vincenzo Ferreri: era tale e tanto, ch’egli doveva procedere tra la folla accorsa da ogni parte ad udirlo, in mezzo ad un recinto mobile di stanghe, che dieci uomini gli facevano attorno, e tuttavia non riusciva a riportare intera la tonaca, che gli veniva lacerata per fare reliquie. Gli avrebbero strappate anche le mani per poterle baciare, se non le avesse tenute in alto sulla testa. Anche le piazze erano sempre troppo piccole per le folle degli uditori. Nei piazzali più ampi gli alzavano un palco detto suggestus su cui sventolava una banderuola, che aveva però un ufficio puramente metereologico: quello d’indicare la direzione del vento a seconda della quale si disponevano, per meglio sentire, gli uditori che talvolta arrivavano persino a cinquanta o sessantamila… Non c’è quindi da stupirsi se qualche cosa di simile in quei tempi e luoghi avvenisse pure per l’altro frate spagnuolo Tommaso di Villanova tanto più che anch’egli, non meno del suo connazionale san Vincenzo, era un santo, e che santo! Lo vedremo adesso riassumendone la vita.
II – Sebbene il nostro Tommaso fosse nato nel 1488 a Fuenlana nella vecchia Castiglia, fu poi detto da Villanova dalla vicina cittadina dove venne allevato e da cui erano oriundi i genitori, iquali si distinguevano per le continue e generose carità ai poveri.
Il lor bimbo apprese per tempo questa fondamentale virtù e si dice che spesso si privasse persino della sua merenda per darla a scuola ai compagni, o anche dei suoi vestiti per regalarli ai piccoli mendicanti che incontrava per via.
Si narra pure che una volta, rimasto solo in casa, ed essendo venuti sei poveri a chiedere l’elemosina, non sapendo loro che dare, essendo la dispensa chiusa a chiave, scese in cortile, prese i sei pulcini che aveva una chioccia e ne diede uno a ciascuno. Alla madre disse poi che, se fosse venuto un settimo mendicante, avrebbe finito col dare anche la chioccia. Aveva poi speciale compassione per gl’infermi e tutti i soldi che poteva raccimolare, l’impiegava a comprare uova per distribuirle loro.
All’età di quindici anni fu inviato alla Università di Alcalà e poi a quella di Salamanca a completare gli studi, terminati i quali, ritornò al paese dove il padre suo, da poco morto, lo aveva lasciato erede di tutti i suoi beni.
Egli provvide. con essi al sostentamento della buona mamma ed il resto lo distribuì gioiosamente ai poveri, deciso di tutto consacrarsi al servizio di Dio.
Tornato infatti poco dopo a Salamanca, ove già aveva conosciuti e apprezzati i monaci eremiti di sant’Agostino, all’età di ventott’anni, ne vestì l’abito e divenne in breve un modello di pietà, di mortificazione, di vita solitaria e contemplativa. Anche negli studi sacri si perfezionò in guisa da essere prima addetto all’insegnamento della teologia e quindi alla predicazione per la quale dimostrava speciale attitudine. Ad essa applicò il metodo scolastico seguito nelle sue lezioni in modo che anche una sua predica la si sarebbe potuta ridurre ad un ampio sillogismo in cui si ponevano e sviluppavano le premesse per poi trarne le conseguenze. Con tal metodo non potè a meno di ottenere egli pure buoni e abbondanti frutti: innumerevoli infatti le conversioni operate, i peccatori ridotti a penitenza, i buoni confermati nella virtù. Lo stesso imperatore Carlo V si mescolava spesso alla folla per ascoltarlo e diceva di esserne sempre tornato migliore.
Rimasta pertanto vacante l’antica sede vescovile di Granata, l’imperatore avrebbe voluto ad ogni costo offrirgliela; ma furono tali e tante le umili ripulse del santo predicatore, che si persuase, per quella volta, a fare la di lui volontà. Non potè però il nostro santo rifiutare l’ufficio di superiore in parecchi conventi del suo Ordine, e si trovava appunto a reggere quella di Valladolid quando, dopo sedici anni, l’imperatore tornò alla carica per fargli accettare l’arcivescovado di Valenza.
Questa volta nulla valsero le proteste, il Papa stesso intervenne, lo minacciò addirittura di scomunica se non accettava, quindi non gli rimase che rassegnarsi al grave peso di cui: sentiva tutta la formidabile responsabilità. Egli si avviò a piedi scalzi, vestito da semplice frate e con appena un compagno, verso Valenza, dove già prevenuto dalla fama della sua predicazione, fu egualmente accolto con grande giubilo ed entusiasmo. Valenza, la patria di san Vincenzo Ferreri, era certo la più adatta ad apprezzare quest’altro grande frate predicatore e non c’è quindi da stupirsi se intorno al suo pulpito si rinnovassero gli stessi entusiasmi.
Ma inoltre si dovette ancora apprezzare in lui il buono e saggio Pastore. Intraprese subito la visita alla vasta diocesi e quindi riunì pure un Concilio provinciale per emendare gli abusi che si erano introdotti specialmente tra il clero. Ammoniva con la massima carità gli erranti e siccome alcuni non intendevano emendarsi, egli, attribuendolo alla sua indegnità, si mise a flagellarsi a sangue davanti ad essi, sicchè impietositi, finirono col promettere sinceramente di mutar vita.
Era poi la vera Provvidenza dei poveri; ben cinquecento ne nutriva ogni giorno e spesso lavava anche loro i piedi e l’invitava alla sua mensa. Ad uno di costoro, che aveva mani e piedi paralizzati, e lamentavasi che quanto riceveva in elemosina non bastava ad alimentar sè e la famiglia, il santo vescovo chiese se preferiva ricevere una elemosina più abbondante o riacquistare l’uso delle membra in modo da poter lavorare e guadagnare. Come ben si può immaginare, il poveretto, che chi sa da quanti anni, giaceva immobile su un pagliericcio, preferì quest’ultima proposta e, ad un segno di croce del santo, si trovò subito guarito.
II buon Pastore insisteva tuttavia d’essere liberato dall’episcopato ritenendosene indegno; ma quello che non ottenne né dal Papa né dall’Imperatore, gli fu concesso da Dio poichè, in una delle tante estasi che aveva nella preghiera, vide nostro Signore che gli disse: «Fatti animo e rallegrati, poichè al giorno della Natività della mia Madre, tu verrai a me e ti riposerai per sempre».
Si era allora alla fine di agosto ed il santo cominciò a sentirsi preso da una febbre ostinata, che lo condusse presto agli estremi. Spirò proprio il giorno che gli aveva annunziato il Signore, all’età di sessantasette anni, lasciando per testamento di distribuire ai poveri il poco che ancora rimanevagli.
Conforme pure al suo desiderio, fu umilmente sepolto nel convento del suo Ordine vicino a Valenza, dove i.l sepolcro non tardò a mutarsi in altare; degno monumento a colui che tanto bene aveva adempito al divin comandamento: praedicate Evangelium.
Concluderemo osservando ancora che, se il santo oggi commemorato e tanti altri antichi predicatori ottenevano così abbondanti frutti, lo si doveva non solo al fatto ch’essi predicavano il Vangelo in modo evangelico, ossia con quel metodo semplice, chiaro, scolastico o catechetico sopra accennato, ma anche all’uditorio che sapeva pur ascoltare evangelicamente. Allora non si andava a predica per dilettarsi, ma per istruirsi, emendarsi, santificarsi; onde raggiungere però tali scopi, come appunto ben diceva anche il nostro santo predicatore, la prima cosa è sentire, la seconda è ricordare e la terza è operare.
Anzitutto, sentire. Egli non stancavasi dal sollecitare tutti a recarsi alla predica e con san Bernardino arrivava a consigliare di lasciare piuttosto la Messa che la predica: «Se di queste due cose tu non potessi far altro che una, o udire la Messa o udire la predica, dovrai piuttosto lasciar la Messa che la predica». E ne dava anche così la ragione: «Dimmi, che crederesti tu del Santo Sacrificio dell’altare se non per la santa predicazione che hai udita? … Tutte le cose che tu sai, vengono dalla parola udita dall’orecchio tuo: Fide ex auditu».
Nè basta sentire e capire la predica, bisogna ancora ricordarla, ragumarla o ruminarla: «Che significa – diceva egli ancora con san Bernardino – questo ragumare? Hai l’esempio nel Vecchio Testamento dove Iddio non voleva che gli si offrisse in sacrifìzio nessuna bestia che non ragumasse. E però fa anche tu come il bue quando ha pasciuto: esso raguma, raguma, e meglio gli pare quel ragumare che non il molto, mangiare. Così fa’ tu de la parola di Dio, dopo averla udita e capita: ragumala molto bene, che ella ti sarà migliore a ragumarla, che quando tu l’odi…».
Ma bisognava inoltre ruminarla agli altri: «Voi o donne, vi vo’ far tutte predicatrici e tornate a casa, ripetete la predica ai figli, al marito e alla madre vecchierella ed inferma, che non può venire ad udire…». Infine ciò che più importa, è di mettere ben in pratica quello che si è appreso e ritenuto, e quindi: evitare i peccati, praticar le virtù, frequentare i Sacramenti, vivere insomma da buoni cristiani, e allora anche i più semplici: fedeli potranno dir tutti di obbedire al divin comandamento di predicare il Vangelo ad ogni creatura, perchè se non con le parole, lo predicheranno ancor meglio con i fatti, con i buoni esempi rendendosi così anch’essi meritevoli dell’eterno premio conseguito dal santo predicatore oggi commemorato.
chiesa di Sant’Agostino – Rimini
L’elemosina di San Tommaso di Villanova, tela di M. A. Franceschini (1687)