Quasi tutto quello che sappiamo di Alipio proviene dagli scritti di quel grande analizzatore dell’uomo che fu S. Agostino (28 ago.) e perciò la sua figura emerge secondo un profilo reale e senza essere inghiottita nell’oscurità della tipica retorica agiografica. Nelle Confessioni ciascun fatto narrato da Agostino ha un suo preciso riferimento concreto e, quando parla di qualche amico, egli getta luce sul loro rapporto e sui ragionamenti comuni in una maniera che acquisisce forza durante la narrazione, così come era accaduto in vita.
Alipio nacque nel 360 circa a Tagaste nel Nord Africa. Era parente di un dignitario locale, Romaniano (mecenate di Agostino), e amico fin da ragazzo del futuro dottore della Chiesa. Sotto la sua guida aveva studiato grammatica a Tagaste e retorica a Cartagine, e il rapporto rimase stretto fino a che suo padre e Agostino non litigarono; anche in seguito, comunque, rimasero amici.
Agostino, personaggio carismatico, aveva colpito Alipio e Romaniano per il suo legame all’eretico ed esotico manicheismo, conosciuto nella sua forma locale di religione non dogmatica per pochi istruiti. Questo credo assicurava al complicato, provocatorio e ambizioso Agostino un modo per mantenere uniti l’irriducibile spirito di perfezione e fanti-autoritarismo connesso ai suoi sentimenti nei confronti del padre e della Chiesa cristiana, mentre attirava Alipio per motivi diversi. Egli infatti, ancora molto giovane, aveva avuto alcune esperienze sessuali, segrete e frugali, ma qualcosa gliele aveva poi fatte aborrire e ora, come dice Agostino, non ne era più attratto e trovava congeniale la rigida castità predicata dai manichei, dei quali ammirava l’austerità. Alipio aveva trovato altri modi per sfogare le passioni: Romaniano amava organizzare a Tagaste spettacoli di animali feroci per dare sfoggio di potere e ricchezza, e il giovane si abituò in maniera pericolosa alla violenza e a ciò che Agostino chiamava la «pazzia del circo». Anzi, Alipio era così ossessionato dal rumore e dalla vista della carneficina che Agostino aveva perso ogni speranza di guarirlo.
Una volta, mentre si trovava a Cartagine, Alipio entrò di soppiatto a una delle lezioni di Agostino (cosa che gli era tassativamente vietata), e udì il rimprovero di Agostino verso coloro che erano ossessionati dagli spettacoli dell’arena. Alipio si sentì direttamente colpito da quelle parole come da un rimprovero personale e immediatamente smise di frequentarli. Agostino temeva che l’accaduto potesse in un qualche modo inimicargli il ragazzo; in realtà fu il contrario: Alipio cominciò a fare pressioni sul padre perché lo lasciasse diventare studente di Agostino. Poiché aveva deciso di seguire la volontà dei genitori e di intraprendere la carriera di avvocato, si recò a Roma per completare i suoi studi.
Sfortunatamente gli amici e i compagni che trovò nella città, indovinando il suo desiderio represso, «con una sorta di amichevole violenza», lo portarono a uno spettacolo di animali feroci.
Alipio riteneva di essere cambiato e di essere tanto forte da poter sedere tra la folla rimanendo a occhi chiusi, ma l’eccitazione e le grida lo vinsero: udendo un urlo tremendo aprì gli occhi, ritornò più dipendente che mai dagli spettacoli dei gladiatori e «bevve con gioia il sangue. […] Non era più l’Alipio entrato prima sulle tribune: ora era uno dei combattenti nell’arena: guardava, urlava, ardeva del desiderio del combattimento. Tornò a casa così sconvolto dal desiderio di sangue che dovette subito tornarci, e non solo con i compagni di quel giorno o con altri che l’avevano corrotto insistendo che ci andasse, ma anche convincendo altri innocenti ad accompagnarlo e ad andare con lui». Passò molto tempo
prima che riuscisse a vincere questa debolezza e vi riuscì solo per la superiore potenza di un altro desiderio, che lo guidò a scoprire la sua strada.
Nel frattempo continuava i suoi studi di legge, completati da utili lezioni sui problemi del mondo, cioè, secondo Agostino, sulla conoscenza di se stessi. Un giorno venne arrestato con l’accusa di tentato furto; un giovane studente stava rubando delle preziose inferriate di piombo, poste sulla via degli orafi, ma venne scoperto per il rumore provocato e scappando perse l’accetta che stava usando per intaccare il metallo; Alipio, che stava passando di là, incuriosito, la raccolse e mal gliene incolse: incolpato immediatamente del crimine, venne liberato dalla prigione solo per il fortunato incontro con un architetto che lo conosceva e dopo una difficoltosa identificazione del vero colpevole.
Nonostante le numerose opportunità, egli rimase casto, studiando diligentemente e guadagnandosi un posto di assessore giudiziario, che ricoprì con imparzialità e discernimento. Gentile, calmo e autorevole (come sarebbe rimasto), resistette anche alle forti pressioni di un senatore corrotto.
Quando Agostino lo raggiunse a Roma, divennero inseparabili e infatti Alipio lo seguì poi a Milano (384) e quindi nel ritiro di Gassiciacum.
Quando la madre di Agostino decise che il figlio avrebbe dovuto sposarsi e gli trovò un buon partito, lo persuase a separarsi dalla donna con cui conviveva da molto tempo. Agostino fu profondamente addolorato, «Il mio cuore si strugge per lei, è ferito e spezzato», tuttavia si innamorò della nuova giovane, anche se aveva due anni in meno dell’età da matrimonio e avrebbe dovuto aspettare a sposarla. Perciò, mentre progettava con Alipio una vita distaccata dagli interessi mondani, si trovò una concubina temporanea.
In tutto questo movimento di affetti, Alipio tentava di dissuaderlo dal matrimonio ma, al contrario, fu Agostino ad architettare «certi allettanti tranelli per intrappolare i piedi onesti e ancora liberi» del suo amico. Unì la sua padronanza del linguaggio alla descrizione dei beni della vita coniugale per risvegliare l’interesse di Alipio. Paragonò le furtive e precoci esperienze del suo amico alle sue “delizie consuete” e sottolineò che se Alipio si fosse sposato, avrebbe potuto godere di quei piaceri in maniera rispettabile, potendo continuare la ricerca della Sapienza divina senza ulteriori preoccupazioni. Riuscì a convincere Alipio a desiderare il matrimonio, ma solo facendo breccia stilla «curiosità». Nonostante le seduzioni dell’amico, Alipio non fece altri passi e giunse così il giorno in cui Agostino sperimentò la grande conversione del cuore e della mente, e con esso la partecipazione di Alipio stesso al nuovo corso.
Quando ad Agostino e Alipio capitò di sentir descrivere la vita ascetica dei monaci del deserto, l’impressione che ne ebbero fu vivissima, specie nel primo: «finito íl racconto ero roso nell’intimo e confuso violentemente da un’orrenda vergogna»; Alipio rimase «senza parole e sbigottito» mentre l’amico, nei suoi tormenti, domandava (riferendosi ai monaci egiziani): «Cosa ci succede? E…] Questi uomini, che non hanno nulla della nostra cultura, si innalzano e scardinano le porte del cielo mentre noi, con tutta la nostra sapienza insensata, rimaniamo qui a soffrire in questo mondo di carne e sangue!». Alipio «in silenzio aspettò che l’agitazione passasse» e poi con risolutezza accettò la nuova vita dedicata a Dio e il ritorno a Milano per chiedere il battesimo. Agostino lo descrive «rivestito di umiltà e così controllato nel corpo da camminare sul suolo italiano ghiacciato a piedi nudi».
I loro nomi vennero inseriti tra i catecumeni della città all’inizio della Quaresima del 387 e la notte di Pasqua giunse il battesimo, amministrato da S. Ambrogio (7 dic.).
Poco dopo fecero ritorno in Africa, a Tagaste, e vissero insieme per tre anni, facendo comunità con persone di uguali intenti. Questo periodo fornì ad Alipio la struttura e l’ordine di cui aveva bisogno. Quando Agostino venne ordinato sacerdote, si trasferirono tutti a Ippona, continuando là l’esperienza cenobitica. Alipio, a sua volta ordinato presbitero, compì un pellegrinaggio in Palestina, dove incontrò S. Girolamo (30 set.).
Tornato in Africa, fu nominato vescovo di Tagaste (ca. 393), si mostrò predicatore sollecito e divenne l’assistente principale di Agostino in tutte le sue opere, aiutandolo spesso in questioni giuridiche e tecniche. Era preparato nella dottrina e sensibile nella pastorale, ma anche capace di comunicare alla pari con gente importante e istruita e un ottimo conoscitore della burocrazia imperiale. Ebbe un ruolo importante nella vittoriosa confutazione dei donatisti e dei pelagiani; da Roma, poi, mandò ad Agostino tutte le opere di Giuliano, vescovo di Eclano (vicino ad Avellino) e sostenitore di Pelagio, così che il maestro potesse rispondere sollecitamente agli attacchi dei suoi oppositori. Fu molte volte rappresentante dei vescovi africani a Roma, fino alla morte di Agostino. Nella lettera scritta ad Alipio nel 429, Agostino chiama l’amico “vecchio”, ed è probabile che Alipio non sia sopravvissuto molto a lungo dopo la sua morte, avvenuta il 28 agosto 430.