di Kasper Elm
Considerando la storia dell’Ordine, è opportuno porsi la domanda su come il piccolo numero dei Guglielmiti, ridottosi nel corso dei secoli, trovò la forza, nonostante la perdita dell’unità organizzativa e di fronte alla crescente ribellione, di affermare la propria autonomia e di lottare in casi disperati per la riconquista di case già perdute. Una delle risposte a questa domanda emerge dalla valutazione che l’Ordine sviluppò di sé e del suo fondatore. Furono infatti la fierezza della singolarità dell’Ordine da una parte, e la fama leggendaria del patrono, venerato in ampi gruppi, soprattutto nel mondo cavalleresco, dall’altra, a dar forza ai Guglielmiti e ad indurli a non rinunciare prima ed in (ancor) maggior numero alla loro tipicità, spesso incerta, e ad unirsi a gruppi più grandi e meglio organizzati. Fino alla soppressione dell’ultimo convento nel XIX secolo, i Guglielmiti, nonostante tutti gli adattamenti di fatto alla condotta di vita monastica, restarono fedeli con vigore al diritto, già difeso con successo nel XIII secolo, di essere un “Ordo eremiticus”. Nel XVIII secolo la lista di privilegi papali redatta da Bourgoy nel suo “Statutum universale”, dovette ancora sottolineare, tra l’altro, lo scopo e la legittimità di questo titolo contro qualsiasi dubbio. A tale proposito non si tratta solamente dell’insistenza, in sè non raramente ostinata nel medioevo, in una più o meno significativa categorizzazione di diritto canonico, bensì quasi di una questione vitale. L’appartenenza all’ “eremitismo”, confermata giuridicamente da questo titolo, diede all’Ordine, oltre al grado di severità particolarmente ascetica, la dignità di una storia lunga ed importante. Nell’Antico Testamento, l’anacoretismo fu preparato da Elia e dalla scuola dei Profeti, e nell’area cristiana fu rinnovato da Antonio e Paolo molto prima di Basilio e Benedetto, Francesco e Domenico: l’Ordine eremitico dei Guglielmiti, per quanto riguarda l’età e l’origine della sua forma di vita, non è inferiore nè ai Mendicanti, nè agli Ordini monastici.
Quali membri dell’antichissimo “status perfectissimus”, che viene determinato dalla contemplazione, dall'”arx summa virtutum et vitae spiritualis”, come Haius la definisce, essi potevano vedere in una luce più favorevole i molteplici pesi della loro vita, che potevano essere intesi, dal punto di vista del monachesimo cenobitico, come sintomi di decadenza. La vita senza coesione ed autorità, l’isolamento e la dispersione dei singoli conventi furono da questo punto di vista non soltanto carenze, al contrario potevano essere avvertiti come inevitabili circostanze concomitanti della vita eremitica, come la reale forma del monachesimo. Come membri di un “Ordo eremiticus” essi poterono gloriarsi delle avversità della loro vita come di un titolo di merito, come il proseguimento del monachesimo desertico d’Egitto. Il prototipo di questa vita eremitica fu per i Guglielmiti il loro stesso patrono. Già nel XIII secolo Teobaldo nella sua “Vita” lo aveva assimilato ad Elia, Eliseo ed Antonio – ed ancora nel XVI secolo Samson Haius, fra i grandi eremiti quali “Hilariones, Pauli, Serapiones, Antonii et Macharii”, non potè trovare esempio migliore di Ilarione, il padre monastico palestinese, per mostrare, nel confronto con questi, la corrispondenza praticamente perfetta di Guglielmo all’ideale dell’anacoretismo. Il culto di Guglielmo quale asceta e modello quasi irraggiungibile di penitenza non si limita al proprio Ordine. Nel 1314, ad esempio, gli Eremiti Agostiniani lo invocarono nel graduale del suo formulario di messa quale intercessore, che attraverso la penitenza aveva spezzato le catene del peccato. Un poco più tardi Petrarca lo accolse, nella sua opera “De vita solitaria”, nella schiera degli eremiti esemplari.
A partire da quel periodo lo si trova rappresentato in molti luoghi con lo strumento della sua pratica penitente, con l’abito da eremita, scalzo ed emaciato. Spesso, come ad esempio nella collegiata a Salgau, espressamente come modello ed esortazione al pentimento ed alla penitenza. La fama di Guglielmo, diffusasi dal XIII secolo con l’espansione dell’Ordine, si fondò tuttavia soltanto in parte su tali aspetti. Al più tardi dalla fine del XIII secolo, per quanto riguarda il culto del Santo, si rende evidente al di qua delle Alpi l’accentuazione di un aspetto che non pose assolutamente fine ai meriti ascetici, ma che li fece però diminuire. Le opere di penitenza e le prove ascetiche vennero messe in ombra dal risalto dato ad un merito che non è possibile ottenere attraverso alcuna condotta di vita ancorchè così santa: attraverso cioè la supposta provenienza da una delle più nobili stirpi di Francia, quella dei duchi di Aquitania. Nella tradizione più antica non si parla in alcun modo di tale discendenza. Alberto riferisce solamente che il Santo discendeva da una nobile stirpe del Poitou senza addentrarsi in dettagli genealogici. L’origine di Guglielmo non lo interessava evidentemente, o perchè non era per lui molto significativa, o perchè, dato il noto mutismo dell’eremita, sfuggì alla sua conoscenza. Dei pochi fatti, che egli realmente conosce sulla sua origine, egli prende fondamentalmente nota soltanto per rafforzare l’antica convinzione secondo cui la santità conferisce una nobiltà più grande rispetto alla nascita: Guglielmo è certamente “nobilis genere”, ma “nobilior sanctitate”. La “sanctitas” del Santo, la sua vita di penitenza in Toscana, che Dio, secondo lui, voleva presentare alla cristianità peccatrice e divisa dallo Scisma quale modello di condizione, non lasciano alcuno spazio alle speculazioni sulla nobiltà e la discendenza. Il mondo cavalleresco è una realtà di vita, che si evita e che passa meglio sotto silenzio – non a caso egli sottolinea con vigore che l’eremita fu colpito da una temporanea cecità, allorchè si lasciò entusiasmare dall’intervento nella lotta fra i Comuni toscani tradendo così la “militia Christi”. Non appena il culto del Santo, dapprima limitato all’Italia, si diffuse al di là delle Alpi, l’immagine del Santo, pervasa da princìpi monacali, subì una trasformazione che al fianco della “nobilitas sanctitatis” pose il “pendant” di una “nobilitas generis” fantasiosamente adornata. Ancora nel XIII secolo il racconto su Guglielmo da Malavalle si mescolava con il ricordo di un cavaliere e monaco ben più famoso avente lo stesso nome, con Guglielmo da Tolosa.
Il conte di Tolosa, già morto nell’813, era, grazie a sua madre Alda, un cugino di Carlo Magno e godeva a tal punto della sua fiducia che questi, nel 790, alla Dieta di Worms, gli affidò la signoria sulla marca di confine, militarmente importante, al posto del conte Chorso vinto dai Baschi. Dopo aver svolto tale compito con maggiore successo del suo predecessore, dopo aver affrontato più volte, fra cui nella battaglia di Orbieu, le invasioni dei Mori, ed aver preso parte nell’801, quale “primus signifer”, alla conquista di Barcellona, nell’806 egli abbandonò il mondo sotto l’influenza di Benedetto di Agnano – anche lui da giovane aveva rinunciato al servizio militare – per vivere fino alla sua morte come semplice monaco nel convento di Gellona da lui fondato. Nel medioevo il ricordo del conte di Tolosa, la cui esistenza presenta certamente soltanto somiglianze molto generali con quella del più giovane Guglielmo da Malavalle, continuò a vivere in una duplice maniera. La “Vita Benedicti abbatis Anianis”, scritta attorno all’822, dedica alla citata conversione dovuta a Benedetto di Agnano un dettagliato capitolo che divenne il punto di partenza degli agiografi di Gellone, i quali da allora mantennero vivo il ricordo del loro fondatore e cercarono di diffonderlo. La “Vita Sancti Wilhelmi”, che ebbe origine nel loro convento attorno al 1125 e che sottolinea espressamente il fatto di voler riferire soltanto della vita monastica di Guglielmo, è influenzata dal canto suo dalla forma ben più duratura in cui venne tramandata la memoria di Guglielmo, il racconto epico popolare. Si tratta della prima testimonianza della “cantilena”, di forme primitive non tramandate del grande ciclo epico in cui Guglielmo, in contrasto con la realtà storica, viene celebrato come grande guerriero al seguito di Carlo Magno, che alla fine, in modo assolutamente non convenzionale, diviene monaco e addirittura eremita. A partire dal XII secolo, l’epica francese rese famoso in tutta Europa il conte di Tolosa, Guglielmo d’Orange, come guerriero ed eremita. Nell’Italia settentrionale l’epopea di Guglielmo, che fu ammessa attorno alla fine del XII secolo e l’inizio del XIII in Toscana, dove Dante conobbe Guglielmo il cavaliere, era già diffusa almeno dalla metà del secolo. In Germania Wolfram von Eschenbach rese celebre, nel suo “Willehalm”, la “Bataille d’Aliscan” dopo il 1212. Fra il 1240 ed il 1245, Ulrico di Tüerheim, di Aquisgrana, continuò l’epopea di Wolfram, rimasta incompiuta, nella sua ampia “Rennewart”, in cui egli – diversamente da Wolfram – riferì anche della vita da eremita di Wolfram, del “Moniage Guillaume”.
Per farla breve, nel XIII secolo, allorchè i Guglielmiti apparvero al di là delle Alpi, al nome di Guglielmo venne associata, non soltanto negli ambienti ecclesiastici, l’idea del cavaliere divenuto monaco che la litania d’Ognissanti invocava, accanto ad Antonio e Benedetto, quale rappresentante “omnium sanctorum monachorum et eremitarum”; egli era noto come tale anche a vasti gruppi di laici che normalmente potevano essere meno interessati ai racconti agiografici che non a quelli sulle gesta di eroi e sulle avventure cavalleresche. Non ci si deve quindi meravigliare del fatto che poco dopo il 1274, probabilmente verso il 1290, un frate minore di Erfurt attribuisse la fondazione dell’Ordine guglielmita all’eroe leggendario, identificando così Guglielmo da Malavalle con Guglielmo da Tolosa. Egli fece ciò in un “Indiculus Ordinum religiosorum” preposto alla “Chronica S. Petri Erfordernis moderna”, enumerazione di tutti gli Ordini non colpiti dall’obbligo di scioglimento stabilito dal Concilio di Lione. Che appunto in Turingia sia possibile dimostrare per la prima volta l’identificazione del patrono dell’Ordine con Guglielmo da Tolosa, non è certamente un caso: qui, infatti, nel 1203-1204, Wolfram aveva iniziato il “Willehalm”, sempre qui erano sorti, a partire dal 1250, anche numerosi conventi guglielmiti che godevano della benevolenza dei langravi. Non si sa se lo sconosciuto minorita abbia arbitrariamente o per ignoranza retrodatato a tal punto le origini dell’Ordine, o se lo abbia fatto con il tacito consenso dei Guglielmiti, certamente meglio informati. Ciò che è sicuro, è il fatto che le sue affermazioni furono riprese dalla storiografia turingia, dalla storiografia degli Eremiti Agostiniani, dall’agiografia e addirittura dalla cronachistica universale, sebbene in forma molteplicemente storpiata. Al fondatore dell’Ordine dei Guglielmiti venne associata l’idea dell’eroe e del grande guerriero almeno a partire dalla fine del XIII secolo. Nonostante questa prospettiva fosse affascinante per la fama ed il prestigio dell’Ordine, un’altra versione, sorta nel medesimo periodo, sulle origini del fondatore dell’Ordine, divenne più efficace per la storia dell’Ordine, avendo essa il merito di una maggiore verosimiglianza e di una migliore rappresentazione letteraria. Quando infatti il già citato Teobaldo scrisse alla fine del XIII secolo una “Vita ” del Santo, per completare le scarse informazioni dei suoi manoscritti consultò fonti che fino ad allora, come egli stesso riferì, nessuno aveva mai considerato. Il risultato del suo studio delle fonti fu un quadro di ben maggiore effetto rispetto a quello delineato da Alberto: Guglielmo, come già il minorita turingio aveva affermato, fino alla sua conversione era duca d’Aquitania e conte di Poitiers.
Egli visse, tuttavia, nel XII secolo, e fino alla sua conversione, avvenuta nel 1136, condusse un’esistenza di smisurata dissolutezza, beffandosi della sua elevata posizione sociale e della sua buona educazione. Il suo imbarbarimento morale culminò nella brutale crudeltà con cui egli, come sostenitore dell’antipapa Anacleto II, perseguitò i seguaci di Innocenzo II. Soltanto Bernardo di Chiaravalle riuscì a costringere alla conversione il perfido peccatore e a farlo desistere dalla persecuzione del legittimo Papa e dei suoi sostenitori. Al Concilio di Poitiers egli lo affrontò nel 1136 con l’Eucaristia in mano, per indurlo “nec supplex sed minax ac verbis terribilibus” al pentimento ed alla conversione. Profondamente colpito da tale scena, il duca abbandonò il mondo per lasciarsi indicare dai numerosi eremiti di Poitiers il cammino della penitenza, che lo condusse dapprima a Gerusalemme, poi alla tomba di S. Giacomo ed infine a Malavalle, dove morì nel 1157. E’ facilmente evidente il modo in cui Teobaldo completò le scarse informazioni sul passato di Guglielmo da Malavalle: soltanto Alberto sapeva che era stato “as huc impius et tyrannus” e che era stato scomunicato da Eugenio II. Alla “Vita” di Alberto egli prepose i capitoli della “Vita” di Bernardo scritta da più autori, in cui si parla delle trattative fra Bernardo ed il duca Guglielmo X (1126-1137) d’Aquitania il quale, in effetti, aveva abbracciato la causa di Anacleto II e, sotto l’influenza del legato pontificio Gherardo d’Augoulême, aveva scacciato i vescovi di Poitiers e Limoge dalle loro sedi. Certamente Teobaldo nella sua compilazione si lasciò sfuggire il fatto che il duca d’Aquitania, dopo la sua conversione grazie a Bernardo, non aveva avuto più alcuna possibilità di fare penitenza da eremita, dal momento che era morto già nel 1137, nel corso di un pellegrinaggio a S. Diego che egli aveva intrapreso, come i suoi antenati, all’avvicinarsi della fine. Dal suo manoscritto egli non poteva aver appreso nulla di ciò, poichè, dopo il racconto della conversione, esso non spendeva più una parola sul duca. Che egli avesse consultato altre fonti contemporanee come Ordericus Vitalis o Suger von S. Denis, allo scopo di arricchire le sue conoscenze sulla fine del duca, ce lo si sarebbe potuto aspettare più da uno storico che da un agiografo teso a magnificare il suo Santo.
La limitatezza del senso critico dell’autore si rivela nella maniera più chiara dal fatto che egli lascia, con noncuranza ed ingiustificatamente, le insulsaggini oggettive e cronologiche che emergono dalla differente datazione delle sue due fonti fondamentali. Nella prima parte della “Vita” egli racconta della conversione di Guglielmo nell’anno 1136 e poco dopo, nella seconda parte, della scomunica e dell’assoluzione finale da parte di Eugenio II, che non deve essersi verificata prima degli anni quaranta del XII secolo. L’autore, più interessato all’aspetto letterario che non a quello storico, giunse ad una creazione di grande effetto per quanto riguarda il suo racconto più che ad una precisione contenutistica. In breve egli mirò alla contrapposizione, di grande effetto, fra dissolutezza peccaminosa e penitenza sovrumana, e non all’esattezza storica. La rappresentazione di Teobaldo trovò comprensibilmente fra i Guglielmiti ed i devoti del Santo un consenso ben più grande rispetto alla meno dettagliata “Vita ” di Alberto. Come dimostrano i manoscritti tramandati, essa venne ampiamente diffusa, citata, tradotta, messa in versi ed infine, nella seconda metà del XIV secolo, adattata per le scene dal Puy (forse è un cognome) degli orafi di Parigi. Fino a che punto da allora l’interesse dei fedeli si sia spostato sulla “nobilitas”, ossia sull’origine altoaristocratica, risulta da un manoscritto di Treviri della prima metà del XIV secolo, in cui si racconta obiettivamente della ricchezza del duca e della sua orgogliosa spavalderia e della sua drammatica conversione, e solo a malapena, però, della sua vita da eremita. Il duca Guglielmo X d’Aquitania era divenuto, come sua figlia Eleonora, celebrata nella letteratura cortese, oggetto di pia fantasia. Dopo che, nel XIII secolo, in Turingia e nei Paesi Bassi era stato creato in duplice maniera il legame del patrono dell’Ordine con i duchi di Aquitania, dalla storia di questa dinastia e dall’epica di Guglielmo ad essa collegata, affluirono alle rappresentazioni della vita del primo una grande quantità di temi. Il che fu UMSO più evidente, poichè dal X secolo si trova a stento un duca d’Aquitania con lo stesso nome che non si sia recato in uno dei numerosi conventi della sua terra per trascorrere gli ultimi anni di vita come monaco o anche soltanto nella cerchia dei monaci. Da allora il ricorso alla sua storia, come già Teobaldo aveva fatto, si ripete sempre. Quasi tutti i predecessori di Guglielmo X furono almeno un volta indicati come fondatori dell’Ordine, il che condusse alla fine ad una inaudita confusione, nella quale niente più era certo, tranne il fatto che il fondatore dell’Ordine guglielmita, prima della sua conversione alla vita eremitica, era stato duca d’Aquitania.
L’intreccio di leggenda e realtà storica, di confusione e falsificazione cosciente fu per l’Ordine dei Guglielmiti più di un gioco di semplice e pia fantasia; la coincidenza del duca col patrono dell’Ordine creava loro un patrono che certamente non si distingueva nè per l’erudizione di Bernardo, nè per la serafica religiosità di Francesco, ma che tuttavia presentava una nobile origine ed un nome ovunque noto. Lo splendore della sua discendenza non significava solamente una chiarificazione della vita dei Guglielmiti, spesso angustiata e sempre povera, esso fu nello stesso tempo una raccomandazione presso quei ceti dalla cui protezione e dai cui favori l’Ordine dipese da quando si insediò al di là delle Alpi. Che gli eremiti avvertissero la fama del loro Santo come una simile raccomandazione, emerge dai mezzi con cui essi cercarono di mostrare il suo buon nome. Essi non diffusero soltanto la sua “Vita”, bensì dimostrarono in numerosi alberi genealogici la sua discendenza, mettendo in evidenza, a seconda delle circostanze locali, l’intreccio con i Carolingi ed i Capetingi, i Salii e gli Asburgo, i duchi di Brabante ed i loro parenti tedeschi, i conti toscani Aldobrandeschi ed infine con i Plantageneti inglesi. Che queste genealogie mirassero ad avere effetti propagandistici, risulta evidente dal fatto che esse non venivano soltanto annotate nei manoscritti, ma venivano addirittura rappresentate sulle pareti delle chiese dell’Ordine e così rese note ad un pubblico più vasto. A tale premura venne incontro il desiderio da parte dell’aristocrazia di poter annoverare nella propria famiglia quanti più santi possibili, e ciò ciò fu determinante per l’inserimento di Guglielmo nella cerchia e nella parentela degli Asburgo. Oltre all’aspetto eremitico, anche l’origine del Santo, a partire dal XIV secolo, fu resa evidente attraverso attributi iconografici: accanto al bastone da eremita, il Santo porta sempre un distintivo del ceto cavalleresco, elmo, lancia o armatura, e abbastanza spesso anche uno stemma gigliato che assomiglia allo stemma dei duchi d’Aquitania. Che l’aristocrazia abbia, già nel XIII secolo, favorito il suo Ordine soprattutto per devozione nei confronti del cavaliere francese, che al più tardi dalla fine del XIII secolo fu ritenuto duca di Aquitania, non risulta così evidente dalle poche fonti e dagli atti formali di donazione, come invece risulta per il XVI secolo, allorchè Cornelius Grapheus presentò al cardinale Guglielmo von Croy, benefattore del convento di Aalst, il patrono dell’Ordine quale omonimo e persona di pari grado: “Guilielmum Guilielmo, ducem duci, illustrem illustri, religione insignem religioso”. Che lo potesse fare è comunque più facile mostrarlo. Presso la promotrice più importante dell’Ordine, Margherita delle Fiandre, risultarono giuste tutte le condizioni per indurla a favorire un Ordine che era stato fondato da un nobile francese, crociato ed eremita. Il ricordo di suo padre, Baldovino IX, imperatore di Costantinopoli, rese la contessa aperta alla religiosità dei crociati; attraverso sua sorella, la contessa Giovanna delle Fiandre, la grande sostenitrice del movimento femminile religioso, ella aveva fatto esperienza dell’introspezione religiosa cui aspiravano le beghine e i begardi.
Allevata dal 1208 in Francia alla corte di Filippo Augusto, ella conosceva i nomi dell’alta aristocrazia e le figure della poesia epica, il che si sarebbe potuto presupporre per quanto riguarda il forte influsso della cultura cavalleresca francese esercitato sulla nobiltà fiamminga e brabantina, se non fosse stato noto il fatto che la “grant dame de Flandres” sarebbe stata decantata da Baldovino de Cond nel suo “Conte de l’Olifant” a lei dedicato. Quanto concerne Margherita, vale quasi con la medesima certezza per i suoi parenti, i suoi pari ed i suoi vassalli, signori di Rethel, Guines, Chatillon e Trazegnies, i quali erano crociati, uomini potenti e colti che come la contessa vissero nell’ambiente culturale cortese. Anche aldilà del Reno i Guglielmiti giunsero in un ambiente culturalmente e genealogicamente orientato verso le Fiandre, il Brabante e fautori dei loro conventi di Dueren e Grevenbroich, non era comune soltanto il nome di Guglielmo, ma anche la devozione a Guglielmo. Nel tardo XIII secolo essi fecero rappresentare un S. Guglielmo accanto ad altri santi cavalieri nella chiesa del castello di Nideggen, nel medesimo periodo in cui essi cominciarono ad appoggiare i Guglielmiti nei conventi menzionati. Accanto a S. Uberto, del quale gli abitanti di Juelich diffusero il culto fra i loro pari a partire dal XV secolo mediante la creazione dell’Ordine di S. Uberto, Guglielmo, cavaliere ed eremita, rimase il santo preferito della loro casa. Il richiamo al ceto ed all’origine del patrono dell’Ordine, potè nel XIII secolo anche nella Germania centrale, presso le corti dei langravi di Turingia ed Assia, dei conti di Henneberg, Urslar-Gleichen ed Orlamuende -strettamente collegate fin dal XII secolo con il basso Reno ed i Paesi Bassi- contare su un’eco simile a quella avuta nelle Fiandre, Brabante e Juelich. Già nel XII secolo la letteratura francese, specialmente la “Chanson de Geste”, aveva trovato una dimora adottiva importante alla corte di Eisenach. Lo stesso langravio Ermanno di Turingia era stato allevato assieme a Luigi VII, futuro sposo di Eleonora e genero del duca Guglielmo X d’Aquitania, presunto patrono dell’Ordine. Quando dopo la morte del langravio si spense anche la formidabile vita letteraria contrassegnata da nomi quali Wolfram von Eschenbach e Walther von der Vogelweide, presso i successori del langravio la conoscenza dei grandi nomi dell’aristocrazia francese, dei duchi d’Aquitania, di Guglielmo ed Eleonora non andò perduta, cosicchè i monaci che dai Paesi Bassi andarono in Turingia poterono riallacciarsi a concetti già familiari nel momento in cui parlarono del loro patrono. Lo stesso si verificò per i langravi di Kessel che nel 1291 resero possibile la costruzione di un convento guglielmita nella loro città di Witzenhausen, e portarono talvolta i suoi conventuali alla loro corte come consiglieri. Nel 1334 il langravio Enrico II fece fare uno sfarzoso manoscritto, conservato a Kassel, del “Willehalm” di Wolfram e della sua continuazione: non soltanto per interesse letterario, bensì “in honore sancti Wilhelmi marchionis”, che la casata brabantina venerava come suo antenato e, come è possibile dedurre dalla testimonianza della “Chronica S. Petri”, come patrono dell’Ordine guglielmita da lui favorito.
E’ possibile dimostrare la compresenza di culto di S. Guglielmo, conoscenza della poesia epica e sviluppo dell’Ordine guglielmita presso quasi tutti i sostenitori ed amici dell’Ordine, alla corte dei duchi di Daernten come nella cerchia del re Ottocaro, presso il crociato Gerlach di Limburg, il ministeriale svevo Alberto di Hagenau e nella casata dei conti di Blieskastel. Era particolarmente forte presso il fondatore del convento guglielmita di Klingnau, Walter signore di Klingen. Egli stesso componeva versi, stimava Wolfram v. Eschenbach ed era in stretto contatto con i poeti dell’Alsazia, del Baden e della Svizzera dei quali alcuni furono iscritti nel registro dei defunti dei Guglielmiti di Klingnau. Da lui si dipanarono rapporti verso Strasburgo, il Baden e la corte degli Asburgo che furono sempre amici e complici influenti dei Guglielmiti nella Germania meridionale. Nel XIV secolo il legame fra l’Ordine dei Guglielmiti e la cavalleria era definitivamente concluso. Il patrono dell’Ordine veniva annoverato, accanto ai martiri della Legione Tebaica, accanto a Gandolfo, Giorgio e Demetrio fra i modelli ed intercessori della cavalleria, nel cui ambito il culto di Guglielmo più antico e più recente si sovrapponevano come nella leggenda era accaduto alla tradizione di Guglielmo da Gellone con la figura storica di Guglielmo da Malavalle. A cominciare da questo periodo Guglielmo viene, assieme ai santi cavalieri menzionati, rappresentato su numerose vetrate, dipinti su tavole e pale d’altare: con l’armatura di ferro, l’elmo e la lancia quali segni del suo stato e con il bastone da eremita, la corona del Rosario ed il libro delle preghiere quali segni della sua “vita eremitica”. Accanto a S. Giorgio egli era ritenuto esponente della bontà cavalleresca a tal punto che nel 1380 e 1381 essi si unirono a Geislingen, Crailsheim ed Urach sotto il nome di Guglielmo in “Leghe di S. Guglielmo”.
Il culto di Guglielmo nel mondo cavalleresco non è privo di una certa paradossalità. Ciò che per i primi biografi era un riprovevole inganno, una tentatazione del demonio, la “damnosa militia”, diventa ora motivo di particolare devozione corporativa, mentre i tratti della sua esistenza di santità, della sua fuga dal mondo e della sua rinuncia alla vita aristocratica vengono assolutamente ignorati. E’ un fenomeno comprensibile il fatto che anche altri Ordini abbiano voluto prender parte allo splendore che il fondatore dell’Ordine guglielmita diffuse. I Cistercensi videro in lui un figlio spirituale del loro grande confratello Bernardo di Chiaravalle e lo accolsero quindi fra i Santi del loro Ordine. Sebbene il biografao Teobaldo avesse espressamente fatto notare che Guglielmo per contrizione ed umiltà non aveva osato entrare nell’Ordine cistercense, i Cistercensi andarono oltre, facendo del duca di Aquitania un cistercense e dei Guglielmiti una congregazione del loro Ordine; a tale proposito essi potevano appellarsi non soltanto ai rapporti fra Bernardo e Guglielmo, ma anche alla grande somiglianza fra le loro Osservanze. Quello che i Cistercensi cercarono di dimostrare a partire dalla somiglianza fra le Costituzioni, fu dedotto da parte dei Benedettini dalla comunanza della regola: i Guglielmiti, secondo loro, non erano altro che una congregazione riformata del loro Ordine e Guglielmo uno dei tanti fiori della vita dell’Ordine benedettino. L’Ordine che tuttavia lo reclamò più spesso e con maggior insistenza fu quello degli Eremiti Agostiniani. Già nel XIII secolo egli era considerato il riformatore del loro Ordine, che in Toscana non aveva fatto altro che ridar vita all’Ordine eremitico agostiniano fondato da Agostino. Ciò diede motivo di venerare Guglielmo accanto ad Agostino e a S. Nicola da Tolentino come speciale patrono dell’Ordine, e a ritenere le fondazioni del suo Ordine come conventi agostiniani riformati. Nonostante la bolla “Ea qua iudicio”, nella quale nel 1266 Clemente IV aveva imposto il silenzio ad entrambi gli Ordini almento per quanto riguardava la questione della fusione, l’affermazione degli Agostiniani rimase un motivo di costanti contrasti fra Guglielmiti ed Eremiti Agostiniani. Le controversie fra Guglielmiti, Eremiti Agostiniani, Cistercensi e Benedettini non impedirono che i quattro Ordini nel XVI secolo si unissero allo scopo di scendere in campo assieme contro la critica che cominciò a mettere in dubbio l’identità del fondatore dell’Ordine con il duca di Aquitania, certamente dominante a partire dal XIII secolo, perchè “quatuor harum sacrarum familiarum res et decus in hodierna celeberrima quaestione agitur, at non earum tantum modo, sed inprimis regum ac principum, qui ad eum ducem tanquam sanctum referunt originem”. Giovanni Bouchet (1476-1577), lo storiografo dei duchi di Aquitania, diede il primo impulso a questa “quaestio celeberrima”. nell’ambito dei lavori preliminari agli “Annali d’Aquitania” apparsi nel 1524, egli si accorse del contrasto fra il racconto delle fonti contemporanee sulla morte del duca Guglielmo a S. Diego, ed il pio racconto della sua vita da eremita che egli conosceva grazie ai manoscritti dei Guglielmiti di Parigi. In questo dilemma Bouchet tentò di mettere d’accordo le informazioni degli storici con quelle degli agiografi.
Egli interpretò la morte del duca in Spagna come una finzione che il duca stesso aveva attuato per prendere congedo dal mondo indisturbatamente e senza alcun impedimento, e per poter vivere da eremita dopo aver dato in eredità – in un testamento probabilmente fatto da Bouchet stesso- il suo dominio, assieme alla mano di sua figlia Eleonora, al giovane Luigi VII. Questa soluzione corrispose al cuore di Bouchet, scrittore di romanzi di cortesi, ma non resse alla critica posteriore. Quando nel 1585 il cardinale Baronius si occupò della revisione del “Martyrologium Romanum”, egli prese ancora in considerazione l’antica e leggendaria tradizione, tuttavia nei suoi annali egli espresse già dei dubbi sull’identità del fondatore dell’Ordine con il duca. I suoi dubbi furono condivisi dagli storici francesi D. Petavius e Fr. Duchesne, ed infine condivisi dagli acuti bollandisti, i quali poterono appoggiarsi alle fonti, nel frattempo pubblicate, della storia del XII secolo, fra cui il “Suger di S. Denis” stampato nel 1526. Le colte argomentazioni dei bollandisti non riuscirono a convincere i devoti di San Guglielmo. Essi continuarono fino al nostro secolo a raccontare la storia del duca d’Aquitania e ad adornarla ulteriormente all’antica maniera. La critica dei bollandisti non fu per loro che una maligna diffamazione. La distruzione della leggenda di Guglielmo mise i Guglielmiti in una posizione che sia l’Ordine degli Eremiti Agostiniani, sia quello dei Carmelitani condivisero con loro. Già nel XV secolo Wimpfeling ed Erasmo avevano negato la pretesa degli Eremiti Agostiniani di aver avuto come fondatore dell’Ordine Agostino stesso. I due umanisti sostennero in questo modo un’antica tesi, fino ad allora difesa soltanto dai canonici regolari agostiniani, che divenne una certezza nel XVI secolo quando i bollandisti chiarirono il fatto che l’Ordine eremitico agostiniano non era sorto nel V secolo, bensì nel XIII. Alla fine del XVII secolo i bollandisti avevano nella stessa arguta maniera fornito la prova che la presunta fondazione dell’Ordine carmelitano mediante Elia non poteva essere altro che una pia leggenda, impresa, questa, che non solo suscitò la violenta opposizione dei Carmelitani, ma che rese addirittura necessario l’intervento della Curia e paralizzò per un certo periodo l’attività degli agiografi.
Tale reazione era comprensibile, visto che la critica storica non aveva fatto vacillare solamente delle semplici leggende, bensì con esse la coscienza storica che gli Ordini avevano di sè. Non si poteva accettare dall’oggi al domani un fondatore d’Ordine che non fosse più duca d’Aquitania, o non si chiamasse più Agostino o Elia. Erano d’intralcio ad una simile conclusione una tradizione di secoli, la devozione dei credenti, il sentimento di sè dell’Ordine. Entrambi i grandi Ordini riuscirono a spiritualizzare il rapporto con i loro patroni, essi vissero nello spirito di Agostino ed Elia anche se non poterono più sentirsi come loro diretti figli. I Guglielmiti chiusero gli occhi davanti alla critica e fino alla fine affermarono di essere discendenti del duca di Aquitania. Non ebbero più la forza, come gli altri due Ordini, di tendere all’immagine purificata del loro Santo, a Guglielmo, eremita di Malavalle, come avevano fatto i primi seguaci del Santo.
Lo splendore e la fama del Santo erano, per loro e per i devoti nel mondo, diventati più importanti della “sanctitas”: leggenda, devozione ed Ordine finirono contemporaneamente nel XVIII secolo.
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