Mentre la storia dell’Ordine è stata nei sette secoli della sua esistenza scarsamente considerata, la vita del suo santo patrono, S. Guglielmo da Malavalle, è stata, nell’ambito e ancor più al di fuori dell’Ordine, oggetto di grande attenzione. A partire dal XIII secolo la pia fantasia dei suoi devoti ed il bisogno di prestigio dei Guglielmiti lo circondarono di un gran numero di leggende, la cui fioritura necessita di un capitolo a parte. Gottfried Heskens cominciò per primo, nel 1658, ad esaminare con uno sguardo critico questa tradizione leggendaria, allo scopo di giungere alla figura storica del Santo. Consultando nuovo materiale, si deve cercare di rendere più precisi i risultati da lui ottenuti e di delineare un quadro più chiaro di Guglielmo da Malavalle e della sua collocazione nella vita monastica toscana. Ciò è importante, dal momento che la sua esistenza rappresenta la forza e contemporaneamente la regola su cui era improntato il carattere eremitico dell’Ordine, e poichè solo con il riferimento allo sfondo della sua vita eremitica è possibile comprendere la tensione nei confronti del monachesimo cenobitico vissuta dai Guglielmiti soprattutto nel XIII secolo.
Su Guglielmo da Malavalle e le origini dell’Ordine, che da lui prende il nome, riferisce in maniera dettagliata, ancorchè non attendibile dal punto di vista storico, la “Vita S. Guilelmi” di Teobaldo, diffusa in numerosi manoscritti fin dal XIV secolo e pubblicata nel 1658 da Heskens. La “Vita”, scritta su iniziativa del priore della provincia francese dell’Ordine, ebbe origine probabilmente fra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV. Già nel 1324 a Parigi essa fu tradotta in francese quasi alla lettera. Dell’autore, che nel prologo della “Vita” si definisce come “peccator Thobaldus”, non si sa praticamente nulla. Dal XIV secolo lo si è indicato come vescovo di Grosseto e di Poitiers, addirittura come arcivescovo di Canterbury, senza tuttavia che sia stata fornita alcuna prova in un certo qual modo sufficiente a sostegno di una tale ipotesi. La grande stima nei confronti di S. Bernardo e la dimestichezza con la letteratura dei Cistercensi portano a supporre che l’autore della “Vita” sia un cistercense appartenuto ad una delle grandi abbazie cistercensi del Belgio o dei Paesi Bassi, dal momento che le sedi della provincia francese si trovavano quasi esclusivamente nella cerchia di queste abbazie. L’autore stesso fa chiaramente capire di non appartenere all’Ordine dei guglielmiti, come invece si sarebbe potuto supporre. Egli motiva il fatto di essere lui, e non un guglielmita, a scrivere la “Vita” del patrono con la propria particolare devozione al Santo, grazie alla cui intercessione fu guarito da una malattia della pelle. Contemporaneamente adduce a sostegno di tale fatto la particolarità dell’Ordine, i cui membri preferivano – come egli afferma – dare notizia di cose importanti relativamente ad altri più che a se stessi, e preferivano essere molto riservati sul loro fondatore.
La “Vita”, che in gran parte attinge a fonti che non hanno assolutamente a che fare con Guglielmo da Malavalle, trasse le informazioni storicamente rilevanti sul Santo soprattutto da un “Libellus de vita patris visu et auditu percepta”, che, secondo Teobaldo, fu scritto dal primo compagno del patrono dell’Ordine. Questa “Vita”, più antica ed importante sia per la biografia di S. Guglielmo, sia per gli inizi dell’Ordine, nel 1658, quando Gottfried Heskens pubblicò negli Acta Sanctorum la sua revisione attraverso Teobaldo, non era più rinvenibile con conseguente rincrescimento dei dotti bollandisti. Nel medesimo secolo tuttavia, il gesuita belga Guglielmo de Waha-Baillonville (†1690) scoprì il manoscritto di una “Vita di Guglielmo”, che nel 1693, dopo la sua morte, fu pubblicato, provvisto di ampi commentari, a cura di Fr. d’Yserin. Contenuto e prologo di questa “Vita” fanno supporre che si tratti della biografia dei più antichi seguaci utilizzata da Teobaldo e a lungo cercata. Il rinvenimento di Wahas aveva valore minore di quanto questi ed il suo confratello d’Yserin potessero sapere. Il manoscritto in loro possesso, sul cui ritrovamento non forniscono alcuna indicazione, contiene infatti un manoscritto della “Vita” di Alberto simile a quella senese del XVI secolo. Aggiunte dalla “Vita” di Teobaldo, che modificano le asserzioni di Alberto sulle origini di Guglielmo e sulla sua vita prima della conversione, nel senso di una tradizione leggendaria dominante a partire dal XIV secolo, e che di conseguenza diminuiscono sostanzialmente il valore del manoscritto e la forza probatoria delle argomentazioni di Wahas che su di essa si basano. Un testo migliore della “Vita” è invece contenuto in un manoscritto del XV secolo, acquistato dai bollandisti dopo il 1837 per la loro biblioteca nuovamente costruita, e finora trascurato.
Sebbene non si possa pretendere che questo manoscritto relativamente recente rappresenti l’archetipo della “Vita” di Alberto, si deve comunque tener presente che esso è perlomeno libero da quelle congetture false e fuorvianti contenute invece in entrambi i manoscritti di cui si è fatta menzione. Oltre a questo testo, sul quale ci siamo fondamentalmente dovuti basare, esiste una versione frammentaria, ma sostanzialmente più antica, della medesima “Vita”, in un lezionario della cappella papale, il Codex lat. 755 della Biblioteca Nazionale di Parigi, scritto in Italia fra il 1255 e il 1279. Purtroppo a questo Codice, di grande valore in tale contesto, mancano, oltre al prologo, proprio le lezioni che riferiscono del soggiorno di Guglielmo in Italia e quindi le parti più importanti, dal punto di vista storico della “Vita”, parti che avrebbero per lo meno potuto confermare la versione di Alberto garantita soltanto mediante Teobaldo. Nel XVII secolo si dà notizia soltanto di una revisione ancora più antica della prima “Vita”, ossia il formulario “in festo S. Guilelmi” scritto dal priore Hugo von Antwerpen attorno al 1250, ma il manoscritto, giunto dal convento di Biervliet a Brugge nel XIV secolo, non è oggi più rintracciabile.
Sono al contrario stati conservati altri testi liturgici del XIII e del XIV secolo riguardo ai quali, sebbene non diano informazioni dettagliate sulla vita di Guglielmo, è possibile concludere evidentemente che corrispondono alla rappresentazione della “Vita” precedente. Il prologo della “Vita” di Alberto, tramandato grazie al manoscritto della Bibliotheca Bollandiana, fa supporre che probabilmente la “Vita”, la cui stesura era stata “iam per annos plurimos” fatta risalire ai “protodiscipuli” del Santo, abbia avuto origine verso la fine del XII secolo, probabilmente durante lo scisma che ha avuto luogo dal 1159 al 1180. Il suo autore, che non a torto si definisce poco istruito, non ha nè senso storico nè ambizioni letterarie, a differenza dell’autore della “Vita” più antica, che voleva essere per Guglielmo ciò che Sulpicio Severo fu per S. Martino di Tours. In modo semplice egli unisce – se è possibile giungere dalle versioni esistenti all’archetipo – alcune osservazioni e parole del maestro, rimastegli impresse nella memoria, insieme a una parte principale, cui segue, secondo uno schema tradizionale, un elenco di miracoli. Le sue osservazioni, presentate nella forma letteraria più semplice, si limitano quasi esclusivamente al periodo che va dall’Epifania del 1156 al febbraio del 1157, ultimo anno di vita del Santo, durante il quale Alberto lo assistette come “famulus et minister”.
Attraverso quello che egli in quei pochi mesi vide con i propri occhi, cercò di completare ciò che il maestro, chiuso e taciturno, solo raramente gli aveva confidato apertamente sulla sua vita fino ad allora. In tali circostanze non esistono i presupposti per un resoconto dettagliato ed utile agli storici. Il limitato valore di testimonianza della “Vita” risulta tuttavia solo in parte da tali condizioni. L’autore tace infatti anche laddove ci si dovrebbe attendere maggiori conoscenze, ad esempio sugli inizi della costituzione dell’Ordine. Bisogna quindi ammettere, se si considerano le fonti, che, nonostante l’utilizzo di nuovo materiale, si può soltanto ottenere una rappresentazione fuggevole della figura del fondatore dell’Ordine, rappresentazione che tuttavia, nella sua semplicità arcaica, è stata abbastanza forte da mantenere vivo nell’Ordine, attraverso i secoli, il principio eremitico. Alcuni anni prima dell’incontro con coloro che furono successivamente i suoi biografi, Guglielmo era sceso a terra a Pisa di ritorno da Gerusalemme. Anziché rimettersi in cammino per la propria patria, egli rimase nel contado di Pisa, dove si ritirò nella Silva Livallia, nella zona del Monte Pisano situata fra il Serchio e l’Arno, per vivere come eremita nell’isolamento di una “spelunca horribilis”. Quando, dopo qualche tempo, si unirono a lui dei compagni, intraprese la costruzione di un “hospitale ad Dei venerationem et pauperum Christi refectionem” per la protezione e l’alloggiamento dei pellegrini che si recavano a Roma attraverso la Via Francigena. La decisione di vivere come eremita in Toscana non era inconsueta. Fino alla metà del XII secolo i Camaldolesi avevano fondato già numerose sedi in Toscana, di cui quattro, ossia S. Michele, S. Sevino, S. Stefano e S. Pietro, nei dintorni di Pisa e Lucca. Nello stesso periodo erano sorte numerose fondazioni dei Vallombrosani, di cui la maggior parte nelle diocesi di Pisa e Lucca. Nel XV secolo l’umanista milanese Andrea Biglia (1395-1435) poteva quindi a ragione definire la Toscana come patria degli eremiti. Ciò fu vero nel XII secolo soprattutto per il territorio del Monte Pisano fra Lucca e Pisa dove Guglielmo cominciò la sua vita da eremita. I “secreta loca et aspera”, i “devii montes” di questa catena montuosa erano conosciuti fin dai tempi antichi come rifugio per eremiti.
Già nel I secolo, molto prima dei Padri del deserto siriani ed egiziani, deve aver qui vissuto un presbitero di nome Antonius “absconsus in monte” con il suo discepolo Torpes, dando così vita ad una tradizione vivace nell’alto medioevo, che si suppone sia stata raccolta nel VI secolo da S. Frediano. “Sequestratus ab omnibus pompis huius seculi” ebbe così inizio questo “ire” nei boschi del Monte Pisano a vivere da eremita fino a quando, nel 560, egli fu nominato vescovo di Lucca, rendendosi benemerito nel suo episcopato. Non ci si deve quindi meravigliare se anche nell’VI secolo sul “Mons Eremiticus”, come spesso il Monte Pisano veniva significativamente definito nel medioevo, sorgessero delle comunità eremitiche composte in parte da chierici che si ritiravano in isolamento per tedio della vita canonica condotta fino ad allora e per timore della precarietà del mondo di allora. Nel 1044 sorse ad esempio, nelle dirette vicinanze della Silva Livallia, in cui si era recato Guglielmo, l’eremo di S. Pantaleone, fondato da canonici che probabilmente erano in origine appartenuti al monastero di S. Frediano a Lucca; e circa un secolo più tardi sorse la cella del sacerdote Rustico, dove dal 1202 si riunirono, con l’approvazione del Papa, dei chierici-eremiti secondo l’ “Ordo Eremitarum Ecclesiae et Cellae Rustici”. I compagni, con i quali Guglielmo aveva intrapreso in questo luogo venerabile la costruzione del ricovero, non si erano conformati al suo rigore ascetico. Ben presto il loro zelo venne meno. Si opponevano ai suoi ordini e nè le esortazioni nè le punizioni erano in grado di condurli ad un serio cambiamento di vita. Al contrario schernivano e tormentavano il loro maestro a tal punto, che questi scelse uno di loro come suo successore e se ne andò. Sul Poggio al Pruno nei pressi di Volterra, Guglielmo cercò ancora una volta di costruire una comunità eremitica. E anche qui non ebbe maggiore successo. L’inospitalità del Monte Pruno era eccessiva. Le serpi piombavano sulla sua abitazione numerose come sciami di mosche e la rendevano inabitabile. Ciò non fu tuttavia la vera causa del suo insuccesso.
L’invidia “pravorum hominum” e le resistenze dei giovani, che ben presto si erano riuniti attorno a lui, fecero fallire il progetto di condurre con ogni rigore un’esistenza da eremita. Dopo questa delusione, Guglielmo pensava di tornare nuovamente dai suoi seguaci nella Silva Livallia. Ma dovette ben presto riconoscere che i loro sentimenti non erano cambiati: essi lo allontanarono come in precedenza. Sfinito e scoraggiato dopo simili esperienze, Guglielmo non tentò più di migliorare gli eremiti ostinati. Per ordine di una voce celeste si recò sul Monte Petrito nella Maremma di Grosseto. Nelle vicinanze di Castiglione della Pescaia egli trovò, presso una famiglia non troppo agiata, quello che aveva offerto ai viaggiatori nella Silva Livallia: incoraggiamento, cure e guarigione. Dopo avere goduto della sua ospitalità, si trattenne per un breve periodo nella casa di Guido, che era chierico nella chiesa di S. Nicola a Castiglione della Pescaia. Una volta ristabilito, Guglielmo lasciò nel 1156 coloro che gli avevano dato ospitalità e si recò a Stabbio di Rodi, in una valle rocciosa distante 5 miglia da Castiglione della Pescaia che era attraversata soltanto in primavera e in autunno dall’Ampio, un modesto corso d’acqua. In questo luogo evitato da cacciatori e pastori, la cui desolazione viene significativamente definita dall’espressione “Malavalle”, egli costruì un “mapale modicum et tugurium vile” con l’aiuto dei Lambardi da Buriano, vassalli della Curia Romana, e del sacerdote Guido.
Fino al 10 febbraio 1157, giorno della sua morte, egli visse qui, dapprima solo, poi, dall’Epifania del 1156, con il suo discepolo Alberto, al quale, poco prima della sua morte, si aggiunse un secondo compagno di nome Rinaldo. Nell’isolamento di Malavalle, dove dopo la morte del Santo sorse la casa madre del suo Ordine, Guglielmo visse la forma di vita religiosa cui aspirava, senza dover temere la resistenza di compagni irragionevoli e più deboli. Il suo modo di vivere è semplice nel suo rigorismo e può essere delineato con pochi tratti. Si tratta sostanzialmente di esercizi e virtù come quelli delineati dall’agiografia e dalla letteratura monastico-ascetica a partire dal IV secolo, e che portano ad un livello di ascesi che merita di essere descritto e celebrato. Guglielmo digiunava ininterrottamente. Si nutriva di erbe crude, acqua e pane che gli veniva portato di quando in quando da alcuni fedeli di Buriano. Soltanto tre volte la settimana mangiava un piatto caldo e un po’ di vino annacquato, razione che rimaneva uguale anche nei giorni festivi. Egli cercava di ridurre oltremodo la quantità di cibo e addirittura dell’acqua necessari alla sopravvivenza, allo scopo di non concedere nulla ai desideri del corpo. Al digiuno egli univa il lavoro manuale. Si sforzava di coltivare con le proprie mani il terreno arido e pieno di cardi e rovi intorno alla sua cella, nel tentativo di fare di questo lavoro un servizio a Dio e un’opera di penitenza attraverso l’elevata esperienza ascetica della preghiera costante. Fino a quando non morì, ovunque si trovasse e qualsiasi cosa facesse, egli mosse ininterrottamente le labbra in preghiera. Del riposo notturno, meritato dopo un tale lavoro quotidiano, egli faceva il coronamento della sua ascesi attraverso un ingegnoso sistema di autopunizione. Egli sceglieva per la notte un letto così duro e corto da non potersi stendere ed allungare. Il capo poggiava su un supporto di legno informe, mentre il corpo era torturato da vesti di crine e da una maglia di ferro indossata sulla pelle nuda. In questo modo si scorticò la pelle a tal punto, che le cicatrici e le schifose croste delle ferite suscitavano orrore e ribrezzo in chi lo guardasse. Il 10 febbraio del 1157, in pieno inverno, questa dura vita di penitenza finì. Guglielmo morì assistito dal suo discepolo e da un sacerdote di Castiglione della Pescaia che Alberto era riuscito ad andare a chiamare, come per miracolo, al di là di sentieri di montagna coperti di neve e gelati. Allorché il Santo nell’ora della morte chiamò a sua protezione i Santi del Paradiso e gli angeli di Dio, il suo volto perdette ogni pallore ed il suo corpo i segni della penitenza; per usare le parole della “Vita” di Teobaldo, dopo dolori e sofferenze il suo corpo divenne uguale a quello del Cristo trasfigurato.
I pochi fatti tramandati da Alberto sul breve periodo intercorso fra lo sbarco a Pisa e la morte a Malavalle, mostrano come l’eremita abbia ricercato e percorso il cammino dalle forme di vita dapprima ancora cenobitiche a quelle degli anacoreti, caratterizzate dall’ascesi più rigida nella solitudine e nell’isolamento. Il nuovo arrivato dalla Terra Santa non aveva trovato evidentemente nè negli insediamenti degli Ordini eremitici, così numerosi in Toscana, nè nei gruppi eremiti del Monte Pisano, una vita religiosa che corrispondesse alle sue intenzioni. All’inizio aveva creduto di poter convertire al suo modo di vivere con l’esempio e l’insegnamento gli eremiti del Monte Pisano e del Monte Pruno, cioè riformando Ordini esistenti. Le esperienze di pochi anni lo avevano tuttavia fatto dubitare dell’esito dei suoi sforzi, ragion per cui aveva posto fine al tentativo di condurre con loro una “vita communis” di natura strettamente ascetica e se n’era andato deluso. Dopodichè, come Antonio e Benedetto, aveva abbandonato senza esitazione un luogo dopo l’altro, giungendo a privarsi anche della compagnia di persone amabili, pur di evitare che qualcosa potesse impedirgli di condurre la sua “vita religiosa”. Questa forma di vita perseguita con tanta ostinazione è stata da Guglielmo stesso descritta in pochi “verba nuda tamen catholica et utilisssima” tramandati con profondo rispetto dal suo discepolo. La sua linea di pensiero è semplice e certamente priva di originalità: Guglielmo esigeva all’inizio della vita spirituale la presa di coscienza della propria bassezza e del proprio essere peccatore. Da ciò si doveva, mediante la rinuncia al possesso e allo scintillío del mondo, trarre l’unica conclusione possibile: l’ascesi in tutte le sue forme, cioè la fame, la sete, il lavoro e la sofferenza debbono mostrare il corpo, strumento del peccato e sede delle “otiositas, avaritia, vana gloria, lascivia, invidia et detractio”, in tutti i suoi limiti, e dare spazio all’anima per servire tranquillamente Dio, quale valore ultimo, in contemplazione e preghiera. All’esigenza di ascesi esteriore corrispose quella di una disciplina interiore, ossia il vedere come dono di Dio senza brontolii “tribulationes et necessitates”, il dominare la propria caparbietà e l’astenersi da qualsiasi critica al prossimo, soprattutto al clero. I meravigliosi effetti di un’esistenza condotta secondo queste regole, e cioè la forza di resistere alle tentazioni e agli attacchi del demonio e delle sue schiere, di guarire i malati e di divenire partecipe di visioni celesti sono, secondo Guglielmo, testimonianze dell’opera divina e non il frutto di una perfezione acquisita mediante l’ascesi. La vita degli eremiti di Malavalle, semplice nei suoi principi di base e nella pratica, ma radicale, ha poco in comune con la discrezione della regola benedettina o magari con la “laeta paupertas” dei Francescani. Come un “alter Elias”, umile come Giobbe, come Antonio in lotta contro il diavolo ed i demoni, vestito come Paolo ed Ilarione, Guglielmo condusse una esistenza che in quasi tutti i suoi tratti trova corrispondenza nel “vir bonus” della “Vita” di Antonio, dello “Apophthegmata”, della “Historia Lausica”.
L’impulso verso questa rigida e primitiva vita eremitica, Guglielmo non l’ebbe per la prima volta in Toscana. Stando alla “Vita” di Alberto, egli cominciò a vivere a Gerusalemme “more anachoretarum” come molti altri pellegrini occidentali, mentre secondo la “Vita” di Teobaldo, già prima del suo pellegrinaggio aveva appreso dagli eremiti del Poitou, la sua patria, l’impulso e il comando di fare penitenza e vivere da eremita, il che di conseguenza renderebbe giustizia alla grande diffusione del movimento eremitico francese nell’XI e nel XII secolo, se non fosse per la difficile tradizione e per le fonti che rendono incerta tale conclusione. È difficile dare una risposta alla domanda sui motivi per cui Guglielmo da Malavalle, a metà del XII secolo, rinnovò in arcaica semplicità la vita dei primi Anacoreti. Come dice la biografia, gli piaceva più fare che parlare. Da quanto emerge dalla “Vita” di Alberto, un motivo va ricercato nel passato del Santo, in un avvenimento di cui nessun’altra fonte, oltre alla “Vita” di Alberto, se ne dà notizia. Negli anni Quaranta del XII secolo, Guglielmo, che secondo Alberto discendeva da una nobile famiglia del Poitou, fu scomunicato, “adhuc tyrannus et impius, ut ipsement confessus est”, da Papa Eugenio II. La colpa di Guglielmo doveva essere stata veramente grave se il Papa, durante il suo soggiorno in Francia, rifiutò al pentito l’assoluzione “ob ferocitatis suae pertinatiam”. Soltanto dopo il suo ritorno a Roma il Papa prestò attenzione alle pressanti richieste di Guglielmo, che lo aveva seguito fino laggiù. Assolto dalla scomunica, Guglielmo intraprese il cammino della dura penitenza. Andò in pellegrinaggio in Terra Santa, accrescendo le fatiche del viaggio attraverso un’armatura che egli indossava direttamente sulla pelle. Dopo il suo ritorno intraprese assieme ai suoi cavalieri un viaggio di penitenza verso la Spagna, alla tomba dell’apostolo S. Giacomo, venerato con predilezione dal mondo cavalleresco. La sua penitenza trovò infine il suo coronamento nella conversione dal mondo della cavalleria e della guerra, dalla “militia damnosa”, alla “militia dominica”, alla dura vita di penitenza nella solitudine del Monte Pisano. La “Vita” di Alberto non riconduce tuttavia la conversione di Guglielmo soltanto alla volontà di penitenza, ma accanto ad essa evidenzia un ulteriore motivo che ad esso si intreccia e che fin dalle origini della Cristianità ha sempre determinato la rottura con il mondo e portato alla “conversio morum”: il pensiero dell’imitazione di Cristo.
Per seguire Cristo “sinceriter et humiliter”, il nobile francese diede ascolto alle parole dette al giovane ricco e, come molti prima di lui, donò i suoi beni ai poveri. Per ordine di Cristo abbandonò la sua patria, il padre e la madre, sebbene Satana, nella persona del padre, cercasse di riportarlo indietro, e sebbene fosse tentato, anche dopo la sua conversione, di riprendere l’arte della guerra, per la quale nutriva una grande passione. Il perno dell’imitazione di Cristo, cui Guglielmo aspirava, non fu, come emerge dalle sue “Vite”, la povertà del Salvatore povero e nudo; non fu la vita comunitaria delle comunità primitive raccolte attorno a Cristo e a Maria; nè tantomeno gli spostamenti del Salvatore per predicare ed insegnare. L’imitazione di Cristo consisteva per lui, evidentemente, nella stretta comunione, mediante l’ascesi e la penitenza, con il Salvatore sofferente, e nel tentativo, attraverso l’isolamento dal mondo e la solitudine, di divenire uguale al Salvatore abbandonato dai suoi amici ed imprigionato dagli sgherri. Questa forma di imitazione di Cristo era nel XII secolo certamente poco singolare, alla stessa stregua delle altre forme della “imitatio Christi” cui si è già accennato. Essa rientrava nel contesto del grande rinnovamento del movimento eremitico, accelerato non da ultimo proprio dal concetto di imitazione, di cui si è già parlato.
La vita di Guglielmo da Malavalle si differenzia dalle origini di questo movimento per il fatto che non fosse un chierico o un monaco a tentare di realizzare in tutta la sua purezza ciò che era loro richiesto dalla loro condizione, ma un laico che, anzichè entrare in convento, cercava da solo di realizzare quella forma di vita religiosa che, fin dai tempi antichi, era ritenuta il grado più elevato dell’autosantificazione, cui solo monaci temprati potevano giungere. Lo slancio del laico verso la vita da eremita, verso il “modus vivendi sine dependentia ab alterius voluntate”, rappresenta evidentemente uno dei molteplici sintomi del dinamismo religioso, crescente nel XII e nel XIII secolo, di ampi gruppi di laici, i quali non soltanto nelle eresie o in gruppi prossimi alla eresia, ma anche nel monachesimo di stampo eremitico (che dall’alto medioevo era in Occidente passato in secondo piano, ma che non era tuttavia stato dimenticato), cercavano quell’appagamento religioso e quell’introspezione che altrove non erano loro offerti. Questo slancio verso l’anacoretismo, strettamente collegato al complesso movimento religioso del XII e del XIII secolo, si espresse al di là delle Alpi in forme sublimi: ad esempio nel movimento religioso femminile, che soprattutto nei Paesi Bassi tornò ad ispirarsi all’istituto della clausura, mai totalmente dimenticato, facendolo rifiorire. In Toscana, dove l’incertezza politica e la crescente “commercializzazione” della vita potevano indurre in modo particolare alla fuga dal mondo e all’ascesi, si ebbe un aumento quasi tutto d’un tratto del numero degli insediamenti eremitici, peraltro non piccolo già nel secolo XI. Nei boschi del Monte Pisano, nella Garfagnana a nord di Lucca e nella malsana Maremma, fra Pisa e Grosseto, dove già nel primo periodo cristiano era stato gettato il seme del pensiero eremitico, sorse una vera Tebaide. Su un territorio proporzionalmente ridotto si affollarono eremitaggi di cui non è ancora stato possibile determinare esattamente nome e numero. I gruppi, piccoli e spesso soggetti ad un priore, vivevano all’inizio per lo più senza nessuna delle regole conosciute dalla tradizione e dalle esperienze ascetiche, che i documenti indicano come la “severa et stricta disciplina et regula eremitica”.
La forma di questa “severa disciplina”, più che dagli archivi, emerge dalle “Vite” dei primi e preminenti rappresentanti del rianimato movimento eremitico toscano, fra i quali, accanto a Guglielmo da Malavalle, vanno ricordati specialmente Alberto da Montalceto (†1151) e Galgano da Chiusdino (†1181). La vita di Alberto da Montalceto é (come quella dei suoi contemporanei meno conosciuti Ranieri da Pisa (†1160) e Alberto di Corsica (XII secolo)), caratterizzata dal legame fra l’inquieto peregrinare e l’isolamento eremitico, in cui, sotto l’influsso della devozione delle crociate, sembra ripetersi ancora una volta l’ascetico essere senza patria, tipico dell’alto medioevo. Contemporaneamente essa sottolinea ancora una volta, attraverso il suo costante passaggio da uno stadio del comportamento religioso all’altro, la tendenza a realizzare direttamente l’ideale della vita da eremita al di fuori della convenzionalità, ossia senza considerare gli Ordini esistenti e le comunità religiose. Come Guglielmo da Malavalle dopo la conversione, anche Alberto si recò in pellegrinaggio dapprima a Roma e al Santuario di S. Michele sul Monte Gargano, ed infine a Gerusalemme ed alla tomba dell’apostolo Giacomo. Solo dopo questo pellegrinaggio cominciò a vivere da eremita. Dapprima si unì ai Camaldolesi in Toscana, e poco dopo, stando alla sua “Vita”, che risale al XIV secolo, si unì a Guglielmo da Malavalle. Presto tuttavia egli si rese nuovamente indipendente, allo scopo di vivere nelle vicinanze della sua città natale, il borgo di Montalceto nella valle dell’Ombrone, per 27 anni “patrum Aegyptiorum more”. Poco dopo la sua morte, l’abbazia camaldolese di S. Salvatore della Berardengha incorporò la cella di Alberto ed i suoi compagni. Solo il fatto che da allora l’eremita sia stato venerato come un santo dell’ordine dei Camaldolesi ha permesso di conservare il suo ricordo. Galgano da Chiusdino era laico come Guglielmo e come Alberto, e come loro abbandonò il mondo dopo una vita fino ad allora sbagliata, un mondo in cui egli, quale membro dell’aristocrazia commerciale di Chiusdino, una cittadina nei pressi di Siena, aveva condotto un’esistenza sfrenata o perlomeno indifferente all’aspetto religioso.
Nel 1180, all’età di 30 anni, spinto, secondo quel che si racconta, da una visione di S. Michele, si ritirò nella solitudine dell’alta valle del Merse, per vivere da eremita sul Monte Siepi. Subito dopo aver costruito una capanna e dopo aver affrontato alcune resistenze e tentazioni con severi esercizi ascetici, egli si rivolse alla Curia per ottenere, come si può ben immaginare, un’approvazione per la sua nuova vita. Alessandro III non solo esaudì la sua richiesta, ma – stando a quanto emerge dalla “Vita” scritta da Rolando da Pisa – gli diede anche le reliquie dei martiri Fabiano, Sebastiano e Stefano per una cappella rotonda costruita un poco più tardi sul Monte Siepi. La sua vita da eremita, che perfino nei dettagli corrispose a quella di Guglielmo, non durò a lungo. Il 3 dicembre 1181-1183 Galgano morì dopo aver invocato – secondo quanto riportato dalla “Vita” di cui è già stata fatta menzione – l’intercessione dell’eremita da Malavalle morto nel 1157. La sua tomba sul Monte Siepi divenne ben presto centro di un culto molto diffuso, che fu confermato nel 1185 da Lucio III, ma forse anche solo dal suo successore, con la canonizzazione dell’asceta. Quando era in vita, Galgano aveva attirato su di sè l’attenzione degli eremiti che, come ovunque in Toscana, anche nella valle del Merse erano numerosi. Dopo la sua morte, tuttavia, la sua vita ascetica ed i miracoli a lui attribuiti influenzarono così fortemente la sua cerchia di amici che attorno alla sua tomba sorse una comunità di eremiti che prese la sua vita a propria regola. Già dopo 10 anni circa dalla morte del maestro, alcuni di questi eremiti si unirono tuttavia ai Cistercensi provenienti dalla Francia, che sul Monte Siepi eressero una delle loro prime abbazie italiane, il Convento di S. Galgano, più tardi molto famoso, e che assieme agli eremiti agostiniani ed ai Guglielmiti mantennero vivo il nome del Santo.
Il movimento eremitico toscano, di cui non è ancora possibile offrire una rappresentazione completa, raggiunse il suo culmine nella prima metà del XIII secolo. Accanto ai numerosi eremi che ebbero un’importanza soltanto locale, in questo periodo se ne misero in evidenza altri, che, dopo un inizio modesto, ebbero un’influenza al di là dei confini della Toscana, e addirittura al di fuori dell’Italia. Nello stesso periodo giunsero dal Monte Fano (nelle Marche) in Toscana degli eremiti, che dal 1231 si erano radunati attorno a San Silvestro Guzzolini e che da lui avevano preso il nome di Silvestrini. Nel 1233 sette importanti commercianti di Firenze abbandonarono le loro famiglie per vivere da eremiti sul Monte Senario nei pressi di Firenze e per dedicarsi interamente al culto della Madonna, ragion per cui essi e l’Ordine nato dalla loro piccola comunità furono chiamati “Servi di Maria”, Serviti. Vent’anni prima dei commercianti fiorentini, Francesco d’Assisi aveva indossato l’abito da eremita ed aveva cominciato a vivere la “vita solitaria” presso S. Damiano. Nella primavera del 1208 egli pose fine a quella forma di vita che, come risulta da quanto detto prima, non era affatto inconsueta, essendogli stato affidato il compito di uscire e predicare pubblicamente la parola di Dio. Nel 1209 Innocenzo III ed i seguaci di Francesco cercarono di revocare la rottura con la “vita eremitica”, che si era manifestata esteriormente nel fatto che il Santo aveva cambiato la veste da eremita, la cintola, il bastone ed i calzari con i vestiti dei contadini umbri. Il consiglio del Papa “ut ad vitam monasticam seu eremiticam diverteret”, e le preoccupazioni dei confratelli “utrum inter homines conversari deberent, an ad loca solitaria se conferre”, furono certamente inutili. I suoi stessi dubbi, che Chiara e frate Silvestro gli chiesero di chiarire in preghiera e che riguardavano la scelta fra il continuare a predicare ed il vivere in modo contemplativo in solitudine, non riuscirono a ricondurlo alla vita da eremita.
Sebbene anche nei primi anni successivi alla fondazione e all’approvazione dell’Ordine fosse stato riconosciuto ampio spazio alla vita eremitica e Francesco avesse formulato nella “De religiosa habitatione in eremo” una specie di regola eremitica, ciò non può certo cambiare il fatto che almeno dal 1208 egli avesse davanti agli occhi scopi diversi da quelli degli eremiti di cui si è appena parlato. L’esteriore isolamento dal mondo cedette alla cura delle anime e alla vita fra i credenti e con i credenti, soprattutto nelle città. L’anacoretismo non fu più considerato in senso letterale come isolamento dal mondo, ma spiritualizzato e sublimato in uno stato di adorazione e di meditazione in raccoglimento, da cui doveva scaturire una forza dagli effetti spirituali: “Frater enim corpus est cella nostra et anima est eremita qui moratur intus in cella ad orandum Dominum et meditandum de ipso. Unde si anima in quiete non manserit in cella sua parum prodest religiosa cella manu facta”. Il movimento eremitico toscano raggiunse il suo punto più alto con la fondazione degli Ordini dei Serviti e degli Eremiti Agostiniani, ma soprattutto con Francesco d’Assisi, che per un poco indossò l’abito da eremita. Questo culmine fu contemporaneamente anche un punto di svolta. Il nuovo ideale della perfetta povertà, e della mendicità ad essa collegata, privarono del fondamento di vita il movimento eremitico, che non poteva vivere di sole elemosine. La spiritualizzazione dell’ascesi e l’esaltazione dell’attività pastorale resero anacronistica la dura rinuncia al mondo, intesa in senso materiale, praticata da Guglielmo e Galgano sull’esempio dei Padri del deserto. Nonostante la vita eremitica in Toscana non avesse avuto fine, – e di ciò è prova la Congregazione degli eremiti di Monte Olivetti, accanto ad altri numerosi eremi tuttavia di scarsa importanza – non è possibile, a partire dalla metà del XIII secolo, parlare di movimento eremitico toscano.
Pressato dalle decisioni del Concilio del 1215 e sotto l’influsso degli Ordini mendicanti, terminò il periodo migliore di questa spontanea vita eremitica. Non soltanto diminuì il numero degli eremi, ma anche gli Ordini eremitici sorti in Toscana cambiarono il loro modo di vivere. Come i Francescani ed i Domenicani, anche i loro membri si recavano nelle città a predicare e ad amministrare i Sacramenti. Solo i figli di Guglielmo e di Galgano insistettero per rimaner fedeli all’ideale dei loro fondatori. Gli uni lo fecero quale Ordine autonomo, gli altri cercarono di farlo, dopo che la loro casa madre ed una parte dei suoi membri già agli inizi della fondazione dell’Ordine era stata assorbita dai Cistercensi, in eremi di nuova costruzione per alcuni anni. Ma anche questi ultimi perdettero la loro autonomia, quando a metà del XIII secolo si unirono agli Eremiti Agostiniani.
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