Se vogliamo comprendere davvero quella che appare nel nostro tempo come la scomparsa del desiderio di maternità, dobbiamo allargare lo sguardo: la questione non riguarda infatti solo le donne e il loro desiderio, ma piuttosto il tema più ampio della relazione tra l’uomo e la donna.
Un bambino può nascere davvero come figlio solo quando l’uomo e la donna si accolgono reciprocamente come dono nella loro ineludibile differenza.
Fare bambini è stato per secoli un evento “naturale” e in parte inevitabile, che non dipendeva dalla qualità del rapporto tra l’uomo e la donna: i figli potevano nascere da una relazione di vero amore, ma anche dal desiderio maschile di tramandare il nome e l’eredità, o dalla casualità di relazioni occasionali che spesso lasciavano sole le donne; il “potere” generativo era dunque sbilanciato dalla parte dell’uomo.
Negli ultimi decenni invece la possibilità per la donna di controllare la propria fertilità ha comportato un totale cambio di paradigma: la posizione del maschio nella decisione generativa si è fatta sempre più marginale e il “potere” generativo si è spostato quasi completamente sulla donna. Nell’uno come nell’altro caso però il vero bersaglio è stato mancato, e l’alleanza uomo-donna continua a essere molto lontana, sostituita da una sotterranea o palese inimicizia e da una lotta tra i sessi per affermare ciascuno il proprio predominio.
Le ragazze di oggi appaiono molto determinate nei loro progetti di auto-realizzazione: allo stesso tempo, l’idea della maternità e quella di un progetto di vita familiare sembrano essere tenute sempre più sullo sfondo, continuamente rinviate con un senso di disagio, come qualcosa che comporta ambivalenza e contraddizione: più che apertamente rifiutati, questi pensieri sembrano lasciati ai margini della consapevolezza. Decidere di mettere al mondo un figlio è una scelta difficilissima, soprattutto in un tempo in cui vogliamo avere il pieno controllo della nostra vita e viviamo la libertà come possibilità di annullare ogni scelta. Un figlio infatti non si può annullare, e un figlio non si può nemmeno davvero controllare, perché obbliga sempre a fare i conti con l’imprevedibile. Come può una donna decidere di aprire la porta a qualcosa che rivoluzionerà così profondamente la sua vita? Può davvero esistere un momento “giusto” per la maternità?
La nascita di un bambino segna, soprattutto per la donna, una forte discontinuità nell’esperienza di sé e del mondo. Non si tratta tanto, come per l’uomo, di un cambiamento “quantitativo” (che richiede maggiore organizzazione, maggiore denaro, diversa distribuzione del tempo) ma di un cambiamento “qualitativo”, che sfida a ridefinire la priorità degli investimenti vitali: un evento nel quale la volontà di guidare/programmare la propria vita si scontra sempre con l’ignoto del figlio-persona e con la forza definitiva del nuovo legame.
La parola “madre” fa paura perché ha assunto aloni di significato sempre più imprigionanti: è una parola potente che si è caricata oggi di una ingestibile richiesta di onnipotenza. A partire dal momento in cui si affaccia l’idea del figlio, oggi la donna vive (o si trova a vivere) il suo ruolo come se ne fosse la sola responsabile, e avverte la sensazione di dover scegliere un legame che metterà sulle sue spalle una responsabilità difficile da reggere. La parola maternità assume un significato totalizzante perché non si coniuga con il corrispettivo della paternità, condividendone la forza e il peso.
La maternità richiede possibilità di affidamento: sul piano sociale, con la percezione di un contesto in cui la maternità ha valore, ma anche conferisce valore alla donna che la accoglie; anche sul piano personale, con la fiducia che sia possibile una relazione di coppia capace di rimanere vitale nel tempo e di condividere la responsabilità della cura.
Il desiderio di maternità trova spazio se la donna sente di poter avere fiducia nell’uomo, nella sua capacità di desiderare il figlio, e di avere cura di lei e del loro bambino. Purtroppo oggi alle paure della donna fa riscontro la crescente fragilità dell’uomo, troppo spesso ripiegato in modo narcisistico su progetti che non prevedono fedeltà né apertura generosa al futuro che un figlio potrebbe rappresentare.
La riflessione sul maschile e quella sul femminile, a lungo separate e talvolta contraddittorie, devono iniziare a viaggiare insieme, per diventare riflessione condivisa sul valore di entrambi e sulla reciproca necessità. Credo che solo così sarà possibile dare vita a rapporti basati sulla stima e sulla fiducia, e riscoprire (o forse scoprire davvero per la prima volta) la bellezza e la gioia di diventare insieme generatori di pensieri, di progetti e di vita.
MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE
Paura e fragilità: se ne esce solo in coppia
Avvenire 2 gennaio 2024